Dal 18 al 24 ottobre si era svolta Steadfast Noon 2021: vi hanno preso parte numerosi cacciabombardieri e aerei radar e tanker. L’esercitazione si è svolta sull’Europa meridionale e ha coinvolto aerei e personale di 14 paesi della NATO.I war games hanno simulato le operazioni di mobilitazione aerea e rifornimento armi in vista di una guerra nucleare. Le due principali basi operative di Steadfast Noon sono Aviano (Pordenone) e Ghedi (Brescia) dove sono ospitate le testate nucleari tattiche B-61 aggiornate e potenziate per poter essere utilizzate dai nuovi cacciabombardieri F-35 “Lighting II” acquistati da diversi paesi NATO ed extra-NATO. Scriveva Antonio Mazzeo: La pericolosissima portata dell’esercitazione …sui cieli italiani non è certamente sfuggita alle autorità militari russe. Il ministro della difesa Sergei Shoigu ha stigmatizzato Steadfast Noon e la modernizzazione delle strategie e degli asset nucleari NATO in Europa: “Siamo particolarmente allarmati dal fatto che i piloti degli stati membri dell’Alleanza atlantica non-nucleari partecipino ad esercitazioni in cui vengono utilizzare queste armi. Consideriamo tutto ciò una diretta violazione del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari”.
Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project della Federazione degli scienziati americani, ha ricordato come anche in passato le basi italiane avevano ospitato l’esercitazione Steadfast Noon (ad Aviano nel 2010 e nel 2013), ma questa volta c’è un’importante novità imminente: l’arrivo dei nuovi L’F-35A, previsto per il 2022, accompagnato dalle nuove bombe nucleari guidate B61-12, circa tre volte più precise delle bombe B61-3/-4 e costruite per perforare i bunker dei centri di comando. Come quelle esistenti nella base, le B61-12 copriranno quattro range selezionabili di potenza, da 1 a circa 50 kilotoni.
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L’arma nucleare e l’Italia nello scenario mondiale
La questione dei trattati internazionali e la posizione del nostro Paese nell’intervista al professor Alessandro Pascolini dell’università di Padova e vicepresidente dell’International School on Disarmament and Research on Conflicts.
Il pericolo di una guerra nucleare, in grado di far scomparire l’umanità dalla faccia della Terra, è un tema rimosso nel dibattito politico e sui media. In pochi, tra i quali l’esperto Antonio Mazzeo, hanno riportato la notizia della grande esercitazione della Nato, Steadfast 2021 che si è svolta in Italia, dal 18 ottobre 2021 per testare cacciabombardieri idonei a usare anche ordigni nucleari, come le bombe B61 presenti nelle basi militari di Ghedi (Brescia), e Aviano (Pordenone).
Esiste un nuovo interesse di parte del mondo associativo grazie alla campagna internazionale della rete Ican, Nobel per la pace 2017, che ha contribuito, il 7 luglio 2017, all’approvazione in sede Onu del Trattato per l’abolizione delle armi nucleari (Tpnw) entrato in vigore il 22 gennaio 2021 per gli stati parte, cioè che hanno firmato e ratificato il trattato. Tra le numerose iniziative anche quella promossa a Caravaggio, Bergamo, il 29 ottobre 2021.
L’Italia, come tutti i Paesi Nato e quelli in possesso delle armi nucleari, non ha aderito al Trattato e non ha alcuna intenzione di farlo, a prescindere dal colore della maggioranza al governo.
Per approfondire il tema da diverse prospettive abbiamo chiesto l’autorevole parere di Alessandro Pascolini, studioso senior dell’Università di Padova, già docente di fisica teorica e di scienze per la pace, attualmente vice-direttore del Master in comunicazione delle scienze e vicepresidente di ISODARCO (International School on Disarmament and Research on Conflicts).
Quale è il suo parere a proposito dell’adesione dell’Italia al Tpnw?
Per gran parte dei Paesi nel mondo l’adesione al trattato non comporta nessuna conseguenza. Anche perché l’adempimento richiesto è quello di inviare una dichiarazione che non viene, tra l’altro, sottoposta ad alcun controllo. Per l’Italia e le altre nazioni della Nato, invece l’adesione al Trattato comporta l’uscita dall’Alleanza atlantica. Si tratterebbe di una scelta di carattere rivoluzionario, che può essere sostenuta da alcune associazioni ma non certo dal governo italiano che sottolinea come tratto distintivo la propria appartenenza alla Nato fin dalla sua fondazione. E la Nato stessa ha dichiarato, in maniera ufficiale, la incompatibilità assoluta tra l’appartenenza all’Alleanza atlantica e l’adesione al trattato sull’abolizione delle armi nucleari. Quando si propone una campagna di opinione sul nucleare, a mio parere, bisogna essere molto chiari sugli obiettivi che si intendono raggiungere. E quella dell’adesione al Tpnw comporta la questione dell’adesione alla Nato.
In Italia sono presenti decine di bombe nucleari nelle basi militari di Aviano e Ghedi. Se ne può chiedere la rimozione? O anche questo stato di fatto è collegato alla nostra appartenenza alla Nato?
Si tratta di una questione completamente diversa. La presenza delle armi nucleari statunitensi in Europa aveva un senso militare strategico quando non esistevano ancora i missili ed era impossibile colpire l’Urss con aerei in partenza dagli Usa. Nulla vieta, oggi, in un contesto completamente diverso, la rimozione delle armi nucleari dall’Italia come avvenuto, tempo fa, dalla Grecia. Anche senza le armi nucleari americane in Europa la Nato rimane un’alleanza militare nucleare, date le forze nucleari di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Sono collocate al suolo, dentro i bunker, come sui sommergibili che solcano i confini dell’Europa.
Sembra di poter dire che la loro presenza sia quasi irrilevante dal punto di vista strategico?
Lo spiegamento di migliaia di bombe tra Nato e Russia rende insignificante militarmente qualche decina di ordigni presenti nelle basi in Italia. Nel caso malaugurato, poi, di un vero conflitto nucleare esse sarebbero, tra l’altro, immediatamente eliminate dai missili russi. Dal punto di vista tattico sono rilevanti i missili presenti nei sommergibili delle potenze nucleari occidentali.
E, infatti, le ultime notizie che arrivano da Londra parlano di un potenziamento dell’arsenale missilistico nucleare sui sommergibili britannici. Allora perché ci sono ancora le bombe nucleari in Italia?
L’unico motivo per cui rimangono, come è scritto nei documenti ufficiali della Nato, è per rafforzare la cooperazione e l’unità tra i Paesi dell’Alleanza. Una scelta di natura politica, non motivata a livello strategico, tanto che gli stessi americani avevano ipotizzato la rimozione di tali armi nel 2010. Operazione non andata a buon fine per la forte opposizione dei Paesi baltici, nuovi membri della Nato. Quindi nulla impedisce teoricamente la rimozione delle bombe nucleari dall’Italia così come dalla Turchia, Belgio, Olanda e Germania. Anche perché, come detto, non incidono nell’equilibrio strategico mondiale. L’Uspid, Unione degli scienziati per il disarmo, ha elaborato uno studio che spiega bene questo stato di cose (www.uspid.org).
A suo parere è ancora efficace la logica della deterrenza, il timore dell’autodistruzione reciproca, oppure come si giustifica il fatto che finora non siamo precipitati nell’apocalisse nucleare?
Sicuramente possiamo dire che la fortuna è stata dalla nostra parte, a evitarci una guerra nucleare. La strategia basata sulla dissuasione è di certo meno peggiore di una politica per la ricerca di una supremazia nucleare. La deterrenza adottata dagli Usa e dai russi ha permesso il controllo degli armamenti con la forte diminuzione di migliaia di testate nucleari da entrambe le parti.
L’innovazione tecnologica in questo campo non può indurre a sferrare il primo colpo potendo neutralizzare i possibili contraccolpi del nemico?
Le dimensioni degli arsenali nucleari di Cina, Russia e USA sono così grandi e differenziati che un attacco disarmante fra di loro è inconcepibile, anche impiegando le ultime tecnologie. È qualcosa che può accadere invece da parte di una grande potenza contro un Paese con ridotte forze nucleari, come ad esempio, da parte degli Usa contro la Corea del Nord.
Come valutare la posizione della Cina? È un Paese nucleare che dichiara di rifiutare il primo colpo…
Si tratta di una semplice dichiarazione non suffragata da fatti, non verificabile e affidata alla interpretazione del dichiarante. La Cina afferma di possedere una minima forza deterrente ma non dice quanti armi ha effettivamente. A mio parere non hanno alcun valore le dichiarazioni che non siano accompagnate dalla possibilità di operare delle reali verifiche. Non è da tralasciare il fatto che la Cina, come Israele, usa l’ambiguità sulle reali dimensioni dell’arsenale nucleare come un fattore strategico necessario per garantire la sicurezza.
E questa mancanza di verificabilità delle dichiarazioni dei Paesi aderenti sarebbe quindi anche, secondo la sua analisi, la debolezza del Trattato per l’abolizione delle armi nucleari?
È uno dei problemi del Trattato, che ha il principale difetto di non offrire alcuna garanzia né a chi aderisce né agli altri Paesi. Non limita la proliferazione nucleare e ha un’impostazione punitiva per i Paesi che decidono di rinunciare alle proprie forze nucleari. Forse anche per questi motivi l’adesione è limitata a Paesi che in tutto rappresentano meno del 13% della popolazione mondiale.
Ma, a partire dal riconoscimento del valore di principio umanitario del Trattato non si può ipotizzare un miglioramento?
In linea di principio è possibile perché possono introdursi degli emendamenti, ma l’impostazione del Trattato è proprio quella di essere dichiarativo senza prevedere forme di controllo. Le parti finora aderenti al Tpnw non hanno competenza per quanto riguarda i controlli e le procedure per arrivare al disarmo. D’altra parte è stato il frutto di un negoziato svolto in fretta con due sessioni che sono durate appena 4 settimane, mentre gli altri trattati hanno richiesto lunghe trattative: anni per la convenzione sulle armi chimiche, e 14 mesi per il più semplice bando delle mine anti persona. Una carenza che emerge anche dal fatto che Paesi come Norvegia, Svezia e Svizzera, che hanno contribuito alla campagna umanitaria in maniera significativa, hanno deciso di non aderire al Trattato.
E quindi cosa propone di fare?
C’è un unico trattato che attualmente impone il disarmo ed è quello di non proliferazione nucleare. Andrebbe sostenuto partecipando attivamente alla conferenza di revisione prevista per i primi mesi del 2022. Inoltre, occorre continuare nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica, attualmente poco attenta al pericolo delle armi nucleari. Vanno valorizzate iniziative serie e concrete, come una da parte della Svezia per arrivare ad una forte riduzione delle armi nucleari e quindi ai rischi che derivano dalla loro proliferazione.
Da uomo di scienza crede che sia proponibile e comprensibile dagli scienziati odierni l’appello lanciato da Rotblat nel 1985, ricevendo il premio Nobel, di non collaborare alla ricerca sulle armi nucleari e “ricordarsi della propria umanità”?
Rotblat ha ripreso l’appello del Manifesto Russell Einstein del 1955 per dare vita, nel 1957, al movimento internazionale Pugwash impegnato nel denunciare i pericoli della guerra atomica e promuovere il disarmo nucleare.
Credo che, per andare alla radice del contrasto alle armi nucleari, bisogna agire sulle cause della guerra, sulla cultura che la sostiene come l’esasperazione dei nazionalismi contro l’appartenenza alla comune umanità. Ormai le armi atomiche ci sono e si sa come costruirle. Anche la loro eliminazione non impedirebbe la possibilità di costruirne di nuove davanti all’insorgere di nuovi conflitti.
L’unica soluzione possibile teoricamente resta il piano Baruch approvato dalla Commissione dell’ONU sull’energia atomica (1946) che prevedeva l’eliminazione di tutte le armi nucleari per affidare a un’autorità di garanzia internazionale il controllo di tutte le forme di energia nucleare. Una proposta mai messa in atto ma che resta l’unica possibilità per arrivare a un accordo in grado di permettere i controlli e quindi offrire garanzie alle parti. Ma, ripeto, alla radice si tratta di costruire una cultura condivisa di ricerca della pace che sia in grado di eliminare le armi nucleari, come quelle chimiche e biologiche, per rendere sicura la sopravvivenza del genere umano sulla terra.
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