“Chi nega il cambiamento climatico e la sua origine antropica non deve avere alcuno spazio in tv. Non va semplicemente invitato, non gli va dato credito, proprio come non lo si darebbe a uno che vuole curare i tumori con le erbe.” LEGGI QUI https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/23/clima-no-ai-negazionisti-in-tv-il-cambiamento-climatico-non-e-unopinione/5528848/ C’è da preoccuparsi davvero del clima che si sta instaurando.
CLIMATE GOVERNANCE – GOVERNARE LE MENTI.
Il Guardian ha deciso di cambiare le parole e le immagini con cui parla di clima. Perché come se ne parla e come lo si mostra determina anche il modo in cui le cose sono capite e magari contrastate.
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Nelle redazioni d’oltremanica si dibatte sul ruolo dell’informazione: di fronte alla catastrofe ambientale imminente, i giornali possono ancora restare neutrali?
“Crediamo che la crisi climatica sia il problema più urgente della nostra epoca. Da oggi ci impegniamo a fare la nostra parte”. Nei giorni scorsi la redazione del Guardian, uno dei più importanti quotidiani britannici – e tra i più letti al mondo – ha preso una posizione netta nel dibattito sul riscaldamento globale, illustrando la nuova linea editoriale che, nei toni e negli intenti, sembra sposare l’attivismo. L’ambizione non è più soltanto informare il pubblico sull’emergenza climatica “con un giornalismo ambientale di qualità, radicato nei fatti scientifici”, ma contribuire attivamente al cambiamento di cui abbiamo un disperato bisogno. “È tempo di agire”, si legge nell’impegno assunto dal Guardian e “noi non staremo zitti”.
Oggi la redazione del giornale può contare su corrispondenti dalle nazioni “più calde” del pianeta: dagli Stati Uniti di Donald Trump al Brasile di Jair Bolsonaro, protagonista di un’offensiva verso la protezione dell’Amazzonia, fino all’Australia, il più grande esportatore di carbone e gas naturale. E questo anche grazie alle donazioni dei lettori di oltre 180 Paesi, una forma di finanziamento che consente al Guardian di mantenere l’accesso libero a tutti gli articoli e di godere di un’invidiabile indipendenza. L’inchiesta The Polluters sulle corporation dei combustibili fossili è uno dei frutti di questa indipendenza, con articoli che è raro leggere su altri giornali.
Le parole sono importanti
La dichiarazione d’intenti del quotidiano londinese è stata accompagnata da un nuovo vocabolario per raccontare la crisi ambientale. Al posto del blando “cambiamenti climatici”, per esempio, d’ora in poi sul Guardian si scriverà “crisi climatica” o “emergenza climatica”, perché di questo si tratta. Niente più “scettici” ma “negazionisti”, perché gli scettici cercano la verità, mentre chi nega l’evidenza del riscaldamento globale non può essere che un negazionista. E ancora: meglio scrivere “natura selvaggia” rispetto a “biodiversità” e “popolazioni di pesci” invece di “stock ittici”, perché i tecnicismi non aiutano i lettori a capire e a prendere a cuore la minaccia per le creature viventi che condividono il pianeta con noi.
E se le parole sono importanti, lo sono pure le immagini, perciò la redazione ha deciso che gli articoli saranno accompagnati da fotografie scelte con cura per far comprendere che la crisi climatica non è un problema astratto e remoto, ma riguarda anche le nostre esistenze. Meno orsi polari e foreste in fiamme, dunque, e più persone che hanno perso la casa in un’alluvione o sono costrette a difendersi dal fumo degli incendi.
Ma le azioni contano ancora di più
A riprova del nuovo approccio, nelle scorse settimane il Guardian non solo ha offerto un’ampia copertura delle proteste di Extinction Rebellion ma, come già era accaduto per gli scioperi di Fridays For Future, ha dato anche un esplicito appoggio alle ragioni della protesta. L’editorialista George Monbiot si è persino fatto arrestare durante un blocco stradale.
Anche la rivista di divulgazione New Scientist, per voce del suo chief reporter Adam Vaughan, ha deciso di schierarsi con Extinction Rebellion, come del resto hanno fatto centinaia di scienziati in tutto il mondo. L’intervento di Vaughan si conclude sottolineando che “la nuova ondata di movimenti di protesta sta creando uno spazio politico per l’azione commisurata alle conoscenze scientifiche, perciò dovrebbe essere sostenuta, piuttosto che condannata”.
Di recente persino la compassata Bbc ha rivisto le politiche interne sulla copertura giornalistica del clima, riconoscendo gli errori del passato e abolendo la pratica di dare uguale spazio a tutte le posizioni (balance), che finisce per legittimare i negazionisti. In una nota inviata dal direttore della cronaca Fran Unsworth a tutto lo staff, scovata da Carbon Brief, si legge: “Per essere imparziali non dovete includere la voce dei negazionisti, allo stesso modo in cui non dovete dare retta a chi negasse che sabato scorso il Manchester United ha vinto 2-0. L’arbitro ha parlato”. (Nell’originale, “the referee has spoken”, con un gioco di parole che evoca il processo di validazione della scienza.)
Giornalisti attivisti
Nella nazione dove tutto ha avuto inizio con lo sfruttamento intensivo del carbone e la rivoluzione industriale, si è dunque aperto un dibattito cruciale sul ruolo del giornalismo, chiamato a prendere posizione di fronte alla crisi climatica e ambientale. Ma, direte voi, il giornalismo non dovrebbe restare neutrale? Non dovrebbe raccontare la realtà in modo distaccato e obiettivo, separando i fatti dalle opinioni? E ancora: se imbocca la strada dell’attivismo, non rischia di perdere credibilità?
Posto che la faccenda è aperta alla discussione, un paio di punti vale la pena di affrontarli. Per come la conosciamo, la comunicazione umana, qualsiasi forma assuma, non è mai neutrale; figuriamoci il giornalismo, che ridotto all’osso è il prodotto di una selezione (soggettiva) dei fatti e del loro racconto (altrettanto soggettivo). Non ha perciò alcun senso pretendere l’oggettività dal giornalismo; ci tocca accontentarci, ammesso di avere la fortuna di vivere in una democrazia, del pluralismo dell’informazione, quel che consente al Guardian di schierarsi al fianco di Extinction Rebellion e al Daily Telegraph di tacciare il gruppo come un “culto millenarista della morte”. Quanto alla credibilità, chi lo dice che vada perduta schierandosi apertamente? Nel caso degli scienziati, per esempio, alcuni studi indicano che non è affatto così, dunque perché mai dovrebbe accadere ai giornalisti?
Il punto vero però è un altro: una volta riconosciuta la gravità della crisi ambientale – e una volta che gli abbiamo dato il nome che merita: una minaccia per centinaia di migliaia di specie viventi e per l’abitabilità dell’unico pianeta che abbiamo – possiamo ancora evitare di prendere posizione? Possiamo nasconderci dietro un’ipocrita maschera di neutralità anziché contribuire a salvare il salvabile? Se oggi persino molti scienziati scelgono l’attivismo, perché non dovrebbe farlo chi per mestiere è chiamato a raccontare la più grave emergenza della nostra epoca? FONTE
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“E’ solo vapore acqueo, sono normalissime scie di condensa”, rassicura chi dovrebbe saperlo, ma chi non si fida parla di “scie chimiche”, parola che ha ottenuto una diffusione epidemica in tutto il mondo divenuta ormai parola chiave. Le chiavi però hanno una doppia funzione, possono aprire o chiudere, ma la funzione in questo caso qual è? A chi o a cosa serve? Cosa aveva in mente chi ha creato questo termine? E’ una composizione di parole del tutto casuale? Perché ha trovato una rapida diffusione planetaria come fosse virale? Ha una funzione di vettore-messaggero efficace e appropriata? LEGGI QUI
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