NOTIZIA MAINSTREAM
Polvere di diamante nel cielo per ridurre la “febbre” del pianeta
La proposta arriva dall’Università di Harvard: le preziose nanoparticelle rifletterebbero i raggi solari contrastando l’effetto serra
Spruzzare polvere di diamante in atmosfera per riflettere i raggi del Sole e abbassare la “febbre” del pianeta provocata dall’effetto serra: è l’idea lanciata da un gruppo di climatologi dell’Università di Harvard in uno studio pubblicato su Atmospheric Chemistry and Physics. Secondo i calcoli dei ricercatori, le preziose nanoparticelle sarebbero molto più efficaci e rispettose dell’ambiente rispetto ai cosiddetti aerosol di solfati, da anni al centro del dibattito sul riscaldamento globale.
Il pericolo dei solfati – Secondo i ricercatori americani, gli aerosol atmosferici, che dovrebbero indurre un abbassamento delle temperature mimando gli effetti di un’eruzione vulcanica, rischierebbero di scatenare una serie di pericolosi effetti collaterali. Innanzitutto potrebbero reagire con altre sostanze presenti in atmosfera, producendo acido solforico e danneggiando lo strato di ozono. Inoltre, assorbendo la luce a particolari lunghezze d’onda, potrebbero far surriscaldare gli strati più bassi dell’atmosfera, alterando la circolazione dei venti e il clima.
Un mix di diamante e alluminio – Per arginare questi ostacoli, gli esperti scommettono sull’utilizzo di due particolari tipi di nanoparticelle solide: quelle fatte di ossido di alluminio, che avrebbero lo stesso effetto raffreddante dei solfati, e quelle realizzate con diamanti sintetici, che invece sarebbero più efficaci del 50%.
I costi – Salvare il pianeta dal global warming, in questo caso, costerebbe davvero caro: il prezzo della polvere di diamante sintetico si aggira infatti attorno ai cento dollari al chilo. FONTE
Qual’è lo scopo non confessato dei ‘diamanti in cielo’, e quali sono i reali effetti ?
Nanoparticelle di diamante sintetico è una polvere grigiastra
Nanoparticelle di diamanti (ND) sono caratterizzati da eccezionali proprietà chimico/fisiche, direttamente originate dalle dimensioni nanometriche.
Alcuni dati storici
“…riassumere semplicemente, seppur in modo un po’ grossolano, la storia, diciamo che la radice originaria è posta nell’Europa di fine ‘800 (Francia con Moissan, Scozia con Hannay) e prosegue, in parallelo, negli anni ’50 in Svezia e negli Stati Uniti d’America. Questa prima linea di sviluppo utilizza metodi di sintesi ad alta pressione e ad alta temperatura (HPHT) già proposti da Moissan. Durante gli inizi degli anni ’60 i Sovietici scoprono, ed è una scoperta indipendente, i nanodiamanti nei prodotti di detonazione degli esplosivi, ne perfezionano le tecniche di produzione, rendendone possibile uso e commercializzazione, per passare poi dalla detonazione ai metodi HPHT. Negli USA alla fine degli anni ’60 viene brevettato un nuovo metodo di produzione basato sulla Chemical Vapor deposition (CVD). Negli anni ’80 i perfezionamenti tecnici subiscono un’accelerazione determinata dall’ingresso, nella storia dei nanodiamanti, dei ricercatori giapponesi che per l’appunto perfezionano, migliorano e modificano le tecniche CDV. Le ricerche, la messa a punto di nuove tecniche anche variamente combinate, continua naturalmente ancora oggi senza interruzione.
… La sintesi del diamante fu ottenuta nel 1953…
Non è solo un interesse ‘da gioielleria’ perché il raggio di azione del consorzio riguarda anche la produzione di supermateriali: sostanzialmente nanodiamanti sintetici (attraverso la Element Six o E6 fondata da Ernest Oppenheimer nel 1946) che a tutto possono servire tranne che a fabbricare gioielli.
E’ ovvio che sia la Gemesis che la Apollo, le due piccole (rispetto alla De Beers) compagnie statunitensi sarebbero già state in grado, una volta avviate le attività produttive, di danneggiare il colosso mondiale dei diamanti.
…la Apollo entrò nell’arena solo nel 1990 (Bloomberg), ma entrò ufficialmente nella storia dei diamanti sintetici con il metodo CVD (Chemical Vapor Deposition) brevettato da Robert Linares, il co-fondatore per l’appunto dell’Apollo Diamond Inc. di Boston (Massachusetts); i diamanti prodotti con questo metodo sono perfetti, non hanno difetti, tanto che Jef Van Royen del Diamond High Council di Anversa fu costretto ad ammettere che il diamante di sintesi era tale e riconoscibile solamente perché la sua struttura era troppo perfetta e, in natura, i diamanti hanno sempre qualche difetto (11). Con la stessa tecnica avendo la pazienza di aspettare poche settimane è anche possibile ottenere gemme di dimensioni di tutto rispetto anche per un gioielliere. Oggi anziché l’Apollo, che cominciò ad offrire al pubblico i suoi diamanti nel 2007 (12), troviamo la SCIO Diamond Technology Corporation, che ne prosegue l’opera e che ha forti interessi nell’uso dei diamanti come semiconduttori, analogamente a quanti ne aveva Robert Linares che aveva iniziato la sua carriera scientifica ai Laboratory Bell prima ed alla Perkin Elmer poi, studiando semiconduttori avanzati, basati su singoli cristalli. La parola semiconduttori spiega in parte la segretezza mantenuta per anni da Linares sul suo lavoro …..
Per ciò che ci riguarda gli interessi medici e biologici per i nanodiamanti sono notevoli, stanti le complesse caratteristiche chimiche di superficie. Le possibilità del loro utilizzo coprono un vasto spettro di applicazioni pratiche che si basano oltre che sulle loro peculiari caratteristiche anche sulla loro spiccata biocompatibilità. Si va dalla possibilità di utilizzarli come carrier di farmaci (anche a lento rilascio, quando montati su biofilm) contro le neoplasie maligne o addirittura come carrier di geni opportunamente scelti nella terapia genica, alla possibilità di utilizzarli nella diagnostica radiologica (risonanza magnetica nucleare) come agente di contrasto dai risultati spettacolari specie se coniugati con Gadolinio.
Per i biologi e per i medici l’utilità dei nanodiamanti sta anche nella possibilità di studiare direttamente singole cellule, seguirne i comportamenti nel corso del tempo (31), dato il ridotto fenomeno di photobleaching (la rapida distruzione fotochimica di un colorante fluorescente). I nanodiamanti possono permettere di riconoscere come target recettori o singole molecole; i limiti della normale microscopia ottica possono essere agevolmente superati utilizzandoli nella costruzione delle ottiche. Possono, in base allo stesso principio, migliorare la microscopia confocale, la citometria a flusso, la microscopia Raman (microscopia ottica combinata con spettroscopia Raman), la microscopia a forza atomica, la microscopia a contrasto di fase apportando importanti benefici sia nella ricerca che nella diagnostica affinandone i risultati…..”
Conclude l’autore dell’interessantissimo articolo:
Sembra, quello dei nanodiamanti, il mondo di ‘Alice’s Adventures in Wonderland’, ma in questo mondo meraviglioso non tutto è, o è sempre stato, buono e perfetto. ARTICOLO INTEGRALE
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DIAMOND AT THE NANOSCALE: APPLICATIONS OF DIAMOND NANOPARTICLES FROM CELLULAR BIOMARKERS TO QUANTUM COMPUTING
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