Cold Response 2022 vedrà due portaerei Nato nei mari dell’Artico
Cold Response 2022 sarà la più grande esercitazione Nato che si terrà all’interno del Circolo Polare Artico dagli anni ’80. Alle manovre di quest’anno, che si terranno tra la metà di marzo e l’inizio di aprile, parteciperanno circa 35mila soldati provenienti da 28 nazioni ma soprattutto, per la prima volta dalla Guerra Fredda
Cold Response 2022
La Russia non si sta occupando (o preoccupando) della sola Ucraina, dove le basi che appoggiano la NATO aumentano e dove il favore politico per l’Alleanza Atlantica è palese; ma l’altro fronte caldo è costituito anche dai mari del Nord, dove Norvegia e Russia condividono i confini terrestri e marittimi.
A marzo 2022 infatti, partirà la Cold Response 2022, esercitazione militare della NATO, presentata già come la più grande esercitazione per numero di militari e mezzi messi a disposizione. Vi aderiranno 26 paesi dell’Alleanza, intenzionati a dare vita ad un quadro che non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda.
La maggior parte dei 35.000 soldati che vi parteciperanno arriveranno da Stati Uniti e Gran Bretagna, e questo non è un caso. I militari saranno accompagnati da navi della Royal Navy britannica e da portaerei americane, ad avvalorare la presenza in numeri e mezzi. È chiaro infatti che nella politica di difesa, tanto dell’Europa, quanto della stessa Norvegia, rientra la presenza delle risorse alleate, pronte ad agire in caso di crisi.
È vero, i mari norvegesi non sono nuovi ad esercitazioni militari della NATO, ma a quanto sembra, per Cold Response 2022 è stato pensato qualcosa di diverso. Le operazioni impiegheranno forze marittime, aeree e terrestri, e saranno effettuate delle esercitazioni sugli sbarchi militari e la gestione degli spazi marittimi. Tutto questo fa pensare che i militari si stanno “allenando” a gestire delle dinamiche ben precise.
Da ciò si evince che la Norvegia sta cercando supporto dagli alleati NATO per difendersi; questo vuol dire che il pericolo percepito è più che concreto. L’esigenza tuttavia, incontra il favore della NATO stessa che intende tenere Mosca all’interno dei ranghi dei propri confini.
In sostanza l’intero contesto dei confini russi e le situazioni che ne derivano, vanno nella direzione di quello che sembra un conflitto inevitabile. A meno di repentini capovolgimenti di fronte si va verso una stasi foriera di tensioni oppure verso un punto di non ritorno dalle tinte oscure.
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Guerra nell’Artico
Michael T. Klare tomdispatch.com
All’inizio di marzo, circa 7.500 truppe da combattimento americane si recheranno in Norvegia per unirsi a migliaia di soldati degli altri paesi NATO ed ingaggiare una grande e finta battaglia contro invasori immaginari provenienti dalla Russia. In questo futuristica esercitazione simulata, che prende il nome di Exercise Cold Response 2020, le forze alleate “condurranno esercitazioni congiunte multinazionali in uno scenario di combattimento ad alta intensità in condizioni invernali impegnative,” o almeno così sostiene l’esercito norvegese. A prima vista, questa potrebbe sembrare una normale manovra di addestramento della NATO, ma pensateci bene. Non c’è nulla di normale in Cold Response 2020. In primo luogo, si svolge oltre il Circolo Polare Artico, lontano dai classici e tradizionali campi di battaglia della NATO, e porta ad un nuovo livello la possibilità di un conflitto tra le grandi potenze, scontro che potrebbe arrivare allo scambio nucleare e al reciproco annientamento. Benvenuti, in altre parole, sul nuovissimo campo di battaglia della Terza Guerra Mondiale.
Per i soldati che parteciperanno alle manovre, le implicazioni potenzialmente termonucleari di Cold Response 2020 potrebbero anche non essere evidenti. All’inizio, i Marines degli Stati Uniti e del Regno Unito si eserciteranno in massicci sbarchi anfibi lungo la costa norvegese, proprio come solitamente fanno in esercitazioni simili in altre parti del mondo. Una volta arrivati a terra, però, lo scenario sarà leggermente diverso. Dopo aver recuperato carri armati ed altro armamento pesante “preposizionato” in caverne all’interno della Norvegia, i Marines procederanno a nord-est, verso la contea di Finnmark, per aiutare l’esercito norvegese a tenere a bada le forze russe che avanzano da oltre confine. Da quel momento in poi, le due parti si impegneranno, per usare l’attuale terminologia del Pentagono, in operazioni di combattimento ad alta intensità in condizioni artiche (uno scenario bellico che non si vedeva, almeno in questa scala, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale).
E questo è solo l’inizio. All’insaputa della maggior parte degli Americani, la regione norvegese di Finnmark e il territorio russo adiacente sono diventati uno dei campi di battaglia dove, in qualsiasi futuro conflitto NATO-Russia, è maggiormente probabile il primo utilizzo delle armi nucleari. Dal momento che Mosca ha concentrato una parte significativa della propria capacità di ritorsione nucleare nella penisola di Kola, un remoto tratto di terra che confina con la Norvegia settentrionale, qualsiasi successo USA-NATO in uno scontro reale con le forze russe nei pressi di quel territorio metterebbe in pericolo una parte significativa dell’arsenale nucleare russo e questo, a sua volta, potrebbe portare ad un utilizzo precoce di tali munizioni. Anche una vittoria simulata, il prevedibile risultato di Cold Response 2020, metterà sicuramente in allarme i responsabili della triade nucleare russa.
Per capire quanto rischioso sarebbe uno scontro NATO-Russia nell’estremo nord della Norvegia, considerate la geografia della regione e i fattori strategici che hanno portato la Russia a concentrare così tanta potenza militare in quella regione. E tutto questo, tra l’altro, va considerato nel contesto di un altro pericolo esistenziale: il cambiamento climatico. Lo scioglimento della calotta polare artica e lo sfruttamento accelerato delle risorse dell’Artico stanno conferendo a quest’area un significato strategico sempre maggiore.
Estrazione di energia nell’estremo nord
Guardate una qualsiasi mappa dell’Europa e noterete che la Scandinavia si allarga verso sud nelle parti più densamente popolate di Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia. A nord, tuttavia, si restringe e diventa sempre meno abitata. Nelle regioni più settentrionali, solo una sottile fascia di Norvegia si protende verso est fino a toccare la penisola di Kola, già territorio russo. A nord, il Mare di Barents, un ramo dell’Oceano Artico, bagna entrambe le regioni. Questa zona remota, a circa 800 miglia da Oslo e 900 da Mosca, è diventata, negli ultimi anni, un vortice di attività economica e militare.
Un tempo apprezzata come fonte di minerali essenziali, in particolare nichel, ematite e fosfati, questa impervia regione è oggi al centro di una intensa attività estrattiva di petrolio e gas naturale. Con le temperature medie che nell’Artico salgono ad una velocità doppia rispetto a qualsiasi altra parte del pianeta e con il fatto che il ghiaccio marino si ritira ogni anno più a nord, l’esplorazione delle riserve offshore di combustibili fossili sta diventando sempre più praticabile. Di conseguenza, sui fondali del Mare di Barents sono state scoperte grandi riserve di petrolio e di gas naturale, gli stessi combustibili la cui combustione è responsabile dell’aumento delle temperature [teoria non convalidata a livello scientifico n.d.t.] ed entrambi i paesi stanno cercando di sfruttare quei depositi. La Norvegia ha preso l’iniziativa, stabilendo ad Hammerfest, nel Finnmark, il primo impianto al mondo sopra il Circolo Polare Artico in grado di esportare gas naturale liquefatto. Allo stesso modo, la Russia ha avviato le operazioni per lo sfruttamento del gigantesco giacimento di gas di Shtokman, nel suo settore del Mare di Barents, anche se, attualmente, non ha ancora completato gli impianti.
Per la Russia, prospettive di estrazione di petrolio e gas anche migliori si trovano più ad est, nei Mari di Kara e Pechora e nella penisola di Yamal, una sottile estensione della Siberia. Le aziende petrolifere russe hanno infatti già iniziato ad estrarre greggio dal giacimento di Prirazlomnoye nel Mare di Pechora e dal giacimento di Novoportovskoye nella penisola di Yamal (e qui anche gas naturale). Questi campi sono molto promettenti per la Russia, che mostra tutte le caratteristiche di un petro-stato, ma c’è un grosso problema: l’unico modo pratico per far arrivare questi prodotti sul mercato è con navi cisterna rompighiaccio appositamente progettate che facciano rotta attraverso il Mare di Barents, all’estremo nord della Norvegia.
Lo sfruttamento delle risorse di petrolio e gas nell’Artico e il loro trasporto verso i mercati europei ed asiatici sono fra le priorità economiche di Mosca, visto che le sue riserve di idrocarburi al di sotto del Circolo Polare Artico iniziano a prosciugarsi. Nonostante le richieste in patria per una maggiore diversificazione economica, la politica del presidente Vladimir Putin, per quanto riguarda il futuro economico del paese, continua ad attribuire la massima importanza alla produzione di idrocarburi. In un tale contesto, l’estrazione nell’Artico è diventata un obiettivo nazionale primario, che, a sua volta, richiede un accesso sicuro all’Oceano Atlantico attraverso il Mare di Barents e le acque al largo della Norvegia. Questa rotta marittima è assolutamente vitale per l’economia energetica della Russia, proprio come lo Stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico all’Oceano Indiano, lo è per i Sauditi e per gli altri produttori regionali di combustibili fossili.
La dimensione militare
Al pari delle gigantesche compagnie energetiche della Russia, anche la sua Marina deve poter arrivare in Atlantico attraverso il Mare di Barents e la Norvegia settentrionale. Escludendo i porti del Mar Baltico e del Mar Nero, accessibili solo attraverso passaggi facilmente bloccabili dalla NATO, l’unico porto russo con un accesso illimitato all’Oceano Atlantico si trova a Murmansk, nella penisola di Kola. Non sorprende quindi che quel porto sia anche il quartier generale della Flotta Russa del Nord, la più potente, e il sito di numerose basi aeree, di fanteria, di missili e di radar, insieme a cantieri navali e reattori nucleari. In altre parole, oggi è una delle regioni militari più importanti di tutta la Russia.
Stando così le cose, il presidente Putin ha sostanzialmente ricostruito la flotta, che era caduta in rovina dopo il crollo dell’Unione Sovietica, dotandola di alcune delle navi da guerra più avanzate del paese. Nel 2018, secondo The Military Balance, una pubblicazione dell’International Institute for Strategic Studies, [la Flotta del Nord] possedeva più incrociatori moderni e cacciatorpediniere (10) delle altre flotte russe, insieme a 22 sottomarini da attacco e numerose navi d’appoggio. Sempre nell’area di Murmansk sono presenti decine aerei da combattimento MiG di ultima generazione ed un vasto assortimento di sistemi di difesa antiaerea. Alla fine del 2019, i funzionari militari russi avevano anche fatto sapere di aver dispiegato nell’Artico il missile balistico aviolanciato Kinzhal, un’arma capace di velocità ipersoniche (più di cinque volte la velocità del suono), presumibilmente sempre in una base nella regione di Murmansk, a sole 125 miglia dalla regione norvegese di Finnmark, il sito della prossima esercitazione NATO.
Tuttavia, è ancora più significativo il modo in cui Mosca ha rafforzato le proprie forze nucleari nella regione. Al pari degli Stati Uniti, la Russia mantiene una “triade” di sistemi per l’attacco nucleare, tra cui missili balistici intercontinentali (ICBM), bombardieri “pesanti” a lungo raggio e missili balistici sublanciati (SLBM). Secondo i termini del Nuovo Trattato per la Riduzione delle Armi Strategiche (Nuovo START), firmato dai due paesi nel 2010, i Russi non possono dispiegare più di 700 vettori, con un massimo di 1.550 testate trasportate. (Tale patto, tuttavia, scadrà nel febbraio 2021, a meno che le due parti non concordino un’estensione, che appare sempre più improbabile nell’era Trump). Secondo l’Associazione per il Controllo degli Armamenti, i Russi avrebbero dispiegato le testate consentite dal Nuovo START su 66 bombardieri pesanti, 286 ICBM e 12 sottomarini con 160 SLBM. Otto di questi sottomarini con armi nucleari fanno parte della Flotta del Nord, il che significa che circa 110 missili, con un massimo di 500 testate (i numeri esatti sono un segreto militare) sono dispiegati nell’area di Murmansk.
Per gli strateghi nucleari russi, questi sottomarini armati di vettori nucleari sono i sistemi di ritorsione con “la più alta probabilità di sopravvivenza.” In caso di uno scambio nucleare con gli Stati Uniti, i bombardieri pesanti e gli ICBM russi potrebbero rivelarsi relativamente vulnerabili agli attacchi preventivi, poiché le loro posizioni sono note e possono essere colpite da bombe e missili americani con una precione quasi totale. Quei sottomarini, tuttavia, all’instaurarsi di una crisi potrebbero salpare da Murmansk e scomparire nel vasto Oceano Atlantico, sfuggendo così alle attività di ricerca degli Stati Uniti. Per fare ciò, tuttavia, è necessario che attraversino il Mare di Barents, evitando le forze della NATO in agguato nelle vicinanze. In altre parole, per Mosca la possibilità stessa di scoraggiare un attacco nucleare degli Stati Uniti dipende dalla sua capacità di difendere la propria roccaforte navale di Murmansk e, allo stesso tempo, cercare di far arrivare i propri sottomarini oltre la regione norvegese di Finnmark. Non sorprende, quindi, che quest’area abbia assunto un’enorme importanza strategica per i pianificatori militari russi e l’imminente Cold Response 2020 sarà per loro sicuramente una sfida.
L’escalation di Washington nell’Artico
Durante l’era della Guerra Fredda, Washington aveva considerato l’Artico come un’importante arena strategica e vi aveva edificato tutta una serie di basi militari. Il loro obiettivo principale: intercettare i bombardieri e i missili sovietici al di sopra del Polo Nord in rotta verso i loro obiettivi nel Nord America. Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991, Washington aveva abbandonato molte di quelle basi. Tuttavia, con il Pentagono che, ancora una volta, identifica la “grande competizione per il potere” con la Russia e la Cina come la caratteristica distintiva dell’attuale ambiente strategico, molte di queste basi vengono nuovamente occupate e se ne costruiscono di nuove. Ancora una volta, l’Artico è considerato una potenziale area di conflitto con la Russia e, di conseguenza, le forze statunitensi vengono preparate per un possibile combattimento a quelle latitudini.
Il Segretario di Stato Mike Pompeo è stato il primo rappresentante ufficiale a spiegare questa nuova visione strategica al Forum Artico che si è tenuto in Finlandia lo scorso maggio. Nel suo discorso, una sorta di “Dottrina Pompeo,” ha spiegato come gli Stati Uniti stessero passando da un benigno disinteresse per la regione al coinvolgimento aggressivo e alla sua militarizzazione. “Stiamo entrando in una nuova era di impegno strategico nell’Artico,” ha insistito, “che tiene conto delle nuove minacce per l’Artico, dei possedimenti territoriali e i tutti i nostri interessi in quella regione.” Per proteggere al meglio quegli interessi contro l’escalation militare della Russia, “stiamo rafforzando la sicurezza e la presenza diplomatica dell’America nell’area … organizzando esercitazioni militari, rafforzando la presenza delle nostre truppe, ricostruendo la nostra flotta di rompighiaccio, ampliando i finanziamenti alla Guardia Costiera e creando una nuova e specifica struttura militare per gli affari artici all’interno dell’esercito.”
Il Pentagono non ha voluto fornire molti dettagli, ma una lettura approfondita della stampa militare suggerisce che questa attività è focalizzata in modo particolare sulla Norvegia settentrionale e sulle acque adiacenti. Per cominciare, il Corpo dei Marines vi ha stabilito una base permanente, la prima volta che forze straniere sono di stanza in Norvegia dall’occupazione tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 2017, un distaccamento di circa 330 Marines era stato inizialmente dispiegato vicino al porto di Trondheim, presumibilmente per contribuire alla sicurezza delle vicine caverne contenenti centinaia di carri armati e di veicoli da combattimento della NATO. Due anni dopo, un gruppo di analoga consistenza era stato dislocato nella regione di Troms, sopra il Circolo Polare Artico e molto più vicino al confine russo.
Dal punto di vista russo, ancora più minacciosa è la costruzione di una stazione radar statunitense sull’isola norvegese di Vardø, a circa 40 miglia dalla penisola di Kola. Operando in collaborazione con il servizio di intelligence norvegese, l’obiettivo della struttura è ovviamente quello di scoprire i sottomarini russi armati di missili nucleari, presumibilmente per identificarli e consentirne l’eliminazione nelle prime fasi di un conflitto. Che Mosca tema una simile prospettiva è evidente dal finto attacco che aveva organizzato contro la struttura di Vardø nel 2018, inviando 11 bombardieri supersonici Su-24 in rotta diretta verso l’isola. (Avevano virato solo all’ultimo momento). Ha anche posizionato una batteria missilistica terra-terra in una località a sole 40 miglia da Vardø.
Inoltre, nell’agosto 2018, la Marina degli Stati Uniti aveva deciso di riattivare nel Nord Atlantico la Seconda Flotta, in precedenza dismessa. “Una nuova Seconda Flotta aumenterà la nostra flessibilità strategica di risposta, dalla Costa Orientale al Mare di Barents,” aveva dichiarato all’epoca il capo delle operazioni navali, John Richardson. Alla fine dell’anno scorso, quella flotta è stata dichiarata pienamente operativa.
Decifrare Cold Response 2020
Le manovre di Cold Response 2020 devono essere valutate nel contesto di tutti questi sviluppi. Sono stati resi pubblici solo pochi dettagli sull’andamento di questi prossimi giochi di guerra, ma non è difficile immaginare come potrebbe evolvere almeno una parte dello scenario: uno scontro russo-americano di qualche tipo, con conseguenti attacchi russi per il controllo della stazione radar di Vardø e del quartier generale della difesa norvegese di Bodø, sulla costa nord-occidentale del paese. Le truppe di invasione verranno rallentate ma non arrestate dalle forze norvegesi (e dai Marines statunitensi di stanza nell’area), mentre inizieranno ad arrivare migliaia di rinforzi dalle basi NATO europee. Alla fine, ovviamente, la marea cambierà e i Russi saranno costretti a ripiegare.
Non importa quale sarà lo scenario ufficiale, per i pianificatori del Pentagono la situazione andrà ben oltre. Qualsiasi assalto russo a strutture militari norvegesi di una certa importanza sarebbe presumibilmente preceduto da intensi bombardamenti aerei e missilistici e dallo spiegamento in profondità delle principali unità navali. Tutto questo, a sua volta, causerebbe mosse analoghe da parte degli Stati Uniti e della NATO, probabilmente con scontri violenti e imponenti perdite da ambo le parti. Nei combattimenti, le principali forze di ritorsione nucleare della Russia sarebbero a rischio e verrebbero quindi messe rapidamente in allerta, con gli ufficiali responsabili costretti ad operare in condizioni di estrema tensione. Un qualsiasi passo falso potrebbe quindi causare ciò che l’umanità teme di più dall’agosto 1945: un’apocalisse nucleare sul Pianeta Terra.
Non c’è modo di sapere fino a che punto queste considerazioni siano incluse nelle versioni classificate dello scenario Cold Response 2020, ma è improbabile che manchino. In effetti, una versione delle manovre del 2016 prevedeva la partecipazione di tre bombardieri nucleari B-52 del Comando Aereo Strategico statunitense, una chiara indicazione che l’esercito americano è pienamente consapevole dei rischi di escalation insiti in qualsiasi scontro russo-americano su larga scala nell’Artico.
In breve, quello che a prima vista potrebbe sembrare un addestramento di routine in una remota parte del mondo fa effettivamente parte della strategia emergente degli Stati Uniti per sopraffare la Russia in una zona difensiva critica, un approccio che potrebbe facilmente portare alla guerra nucleare. I Russi, ovviamente, ne sono ben consapevoli e quindi sicuramente guarderanno Cold Response 2020 con autentica trepidazione. Le loro paure sono comprensibili, ma tutti noi dovremmo preoccuparci per una strategia che alimenta un rischio così elevato di escalation.
Fin da quando i Sovietici avevano acquisito armi nucleari proprie, nel 1949, gli strateghi si erano sempre chiesti come e dove avrebbe potuto scoppiare una guerra nucleare a tutto campo, la Terza Guerra Mondiale. Un tempo, si riteneva che quel devastante scenario sarebbe probabilmente scaturito da un confronto per la città divisa di Berlino o lungo il confine est-ovest della Germania. Tuttavia, dopo la Guerra Fredda, i timori di uno scontro così mortale erano svaniti ed erano rimasti in pochi a ritenere plausibile una simile possibilità. Al giorno d’oggi, però, la prospettiva di una catastrofica Terza Guerra Mondiale sta nuovamente diventando fin troppo prevedibile e questa volta, a quanto pare, un incidente nell’Artico potrebbe rivelarsi la scintilla dell’Armageddon.
Michael T. Klare
Fonte: tomdispatch.com
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