Vedere la speranza. C’è sempre la possibilità di sperare per l’umanità. C’è la speranza di non arrendersi mestamente alle brutture della vita e al malvagio che a volte c’è negli uomini. Come c’è la speranza di ripiantumare una foresta, negli anni desertificata, e vederla tornare alla vita. Questo è il cammino – professionale e umano – di un fotografo come Sebastião Salgado.
Si può rimediare agli errori dell’uomo.
Di Sonia Milone
Dalla guerra in Angola al genocidio in Rwanda, dai pozzi del Kuwait alle miniere brasiliane, dai contadini senza terra agli operai delle capitali asiatiche, dal Sahel all’Amazzonia, le fotografie di Salgado compongono il poema epico e tragico dei nostri tempi.
Si è spento a Parigi all’età di 81 anni Sebastião Salgado, uno dei grandi maestri della fotografia contemporanea.
Diceva che “per un fotografo è più importante avere scarpe molto buone che avere un’ottima macchina fotografica“ e di chilometri, lui, ne ha percorsi davvero tanti attraversando le infinite periferie ai margini del mondo occidentale per raccontare “le storie della parte più nascosta della società”.

Spectre of Hope © Sebastião Salgado
È stato un fotoreporter radicale, ma è stato anche molto più di questo: un artista a tutto tondo vocato a trasmettere un’idea precisa di uomo e di umanesimo. Le sue immagini trascendono, infatti, la mera documentazione dei singoli eventi per elevarsi a contenuto universale grazie anche ad uno stile unico, caratterizzato dall’uso personalissimo del bianco e nero contrastato, ricco di vibrazioni chiaroscurali piantate sui soggetti come le lame di luce di Caravaggio per conferire un’aura mitica ai soggetti più umili.
Salgado ha saputo unire una ricerca quasi rinascimentale sulla fotografia come strumento di indagine e di conoscenza con le tematiche più aspre del la contemporaneità.
Il suo obiettivo ha messo a fuoco i temi dell’identità dei popoli, delle etnie in via di sparizione, della cancellazione del lavoro manuale, delle desolazioni della povertà, delle umiliazioni dello sfruttamento, della crudeltà delle guerre.
C’è uno spartiacque nella sua carriera: dopo il reportage sul genocidio del Rwanda, smette di fotografare le persone perché, come ha scritto, “Quando sono andato via non credevo più a niente, non poteva esserci salvezza per la specie umana, non si poteva sopravvivere a una cosa simile”. D’ora in poi, il suo lavoro si concentrerà esclusivamente sul paesaggio per esorcizzare il dolore del mondo nella sublime bellezza del pianeta.

Le sue opere hanno ridefinito il modo in cui guardiamo la sofferenza. Il suo sguardo non è mai distaccato, ma sempre partecipe e profondamente umano. Non si è limitato a documentare il mondo, lo ha reinterpretato attraverso l’obiettivo trasformando ogni progetto fotografico in un viaggio dentro l’anima della realtà, dentro le contraddizioni della modernità, dentro gli abissi del male con un talento innato capace di trasformare la crudezza della vita in una poesia visiva di resistenza e dignità umana.
Al bisogno di testimoniare, ha unito un’estetica fatta di pathos dove la foto-grafia, che etimologicamente significa scrittura della luce, ha dato corpo all’ombra per simboleggiare la gravità della storia che incombe su tutti e travolge gli ultimi.
C’è sempre una drammaturgia del reale nei suoi scatti, una composizione visiva che evoca il mito, il sacro, ovvero la grande tensione fra il bene e il male, la redenzione e il peccato, il dolore altrui e la possibilità di com-prenderlo.

Lontano da ogni formalismo fine a se stesso, le immagini di Salgado hanno una sofisticata estetica (nel senso antico del termine, cioè etico). Come ha scritto il critico Peter Sager: “I suoi vigili del fuoco, i suoi operai metallurgici sono eroi al lavoro, talvolta ai limiti dell’idealizzazione romantica. I coltivatori delle piantagioni di canna da zucchero cubane brandiscono i loro machete come guerrieri di epoche arcaiche. E i fuggiaschi etiopi avvolti nei loro panni, ai margini del deserto, sembrano i personaggi di una tragedia antica. Sono immagini estreme di realtà estreme. Il pathos, il gesto elegiaco emana dai soggetti quanto dal modo in cui vengono rappresentati. Gruppi di madri con bambini, scene di passione, masse in gran movimento: queste immagini raccontano storie bibliche che Salgado cita con la passione di un teologo marxista della liberazione”.

Nato ad Aimorés in Brasile nel 1944, in fuga dal proprio paese sul finire degli anni ’60 durante la dittatura, Salgado si trasferisce a Parigi dove lavora per l’Organizzazione Internazionale del Caffè occupandosi di progetti nei paesi in via di sviluppo. Iniziano così i suoi viaggi in Africa insieme al suo grande amore per la macchina fotografica. Nel 1973, a quasi trent’anni, lascia definitivamente la carriera economica per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia professionale: nel 1974 entra nell’agenzia Sygma e documenta la rivoluzione dei garofani in Portogallo e le guerre di liberazione dal colonialismo in Angola e Mozambico; nel 1975 passa alla Gamma ed in seguito, nel 1979, alla Magnum, per poi fondare, nel 1994, la sua agenzia “Amazonas Images” in modo da gestire in totale autonomia i propri progetti insieme alla moglie Lélia Wanick, architetto e curatrice dei suoi lavori.
Molti gli scatti entrati nella storia, come quelli della serie “Serra Pelada” (1986) in cui documenta la schiavitù dei lavoratori di una miniera aurifera brasiliana: “La prima volta che ho visto la miniera, ero senza parole. Ho avuto la pelle d’oca: 52.000 uomini che lavoravano, senza una sola macchina, in un buco profondo duecento metri. Metà delle persone trasportava dei sacchi pesanti di terra salendo su delle scale di legno. L’altra scendeva per i pendii fangosi, sprofondando nell’abisso”. Solo corpi, fango e fatica rappresentati in tutta la loro potenza plastica con grande forza evocativa.
I suoi numerosi viaggi tra il 1977 e il 1984 (ben quindici) nei paesi dell’America Latina confluiscono in un grande affresco sulle culture autoctone contadine di quelle terre portando alla pubblicazione del suo primo libro intitolato “Altre Americhe” (1986). Si tratta di uno dei primi esempi di foto-documentari della storia per raccontare etnie diverse. Il volume diventerà, inoltre, un riferimento anche dal punto di vista grafico grazie al design innovativo ideato da Lelia.

Ai suoi progetti Salgado riservava molto tempo e lunghi viaggi, come per “Sahel: Man In Distress” (1986) sulla terribile carestia che aveva afflitto la regione africana. Nessuno ha saputo raccontare l’Africa, le sue ferite e le sue bellezze, come lui. Nessuno ha saputo rappresentare una rifugiata cieca come una Madonna o una scena di pascolo come un rito religioso in cui le corna dei bovini in primo piano simboleggiano la luna nell’unione fra cielo e terra, tema caro all’iconografia del continente nero.
Nei sei anni successivi conduce una grandiosa, geniale, inchiesta sul lavoro manuale componendo un vero e proprio poema epico e antropologico dedicato a pratiche antichissime prima che vengano completamente cancellate dalla meccanizzazione e digitalizzazione industriale. Dai lavoratori nelle acciaierie russe ai pescatori di tonno in Sicilia (foto sotto), dai manovali dei cantieri navali in Bangladesh ai minatori brasiliani fino ai vigili del fuoco del Kuwait intenti a spegnere gli incendi dei pozzi petroliferi durante la guerra del golfo, l’autore ritrae in 350 fotografie i lavoratori più umili di tutto il mondo restituendo loro grande dignità. Il risultato viene raccolto nel volume “Workers” (“La mano dell’uomo”), pubblicato nel 1993, tradotto in sette lingue e accompagnato da una mostra che fa il giro di sessanta musei, la serie viene considerata uno dei progetti fotografici più significativi del secolo.


Salgado definiva il suo lavoro “fotografia militante volta a una migliore comprensione dell’uomo” e con quest’opera affida alle immagini una dimensione universale che trascende le semplici immagini per affermare lo spirito dei lavoratori alla fine della manodopera industriale in un’archeologia visiva su larga scala.
Nel 1997 viene pubblicato il libro “Terra” con 137 fotografie che Sebastião ha scattato nell’arco di quasi due decenni a testimonianza del dramma dei contadini brasiliani, messi in ginocchio dalla nuova organizzazione economica e costretti a emigrare in massa verso le città, dove li attende un destino di privazioni e miseria. Il fotografo inizia a lavorare al libro dopo il massacro del 17 aprile 1996, quando 155 soldati della polizia militare hanno aperto il fuoco su una manifestazione di lavoratori vicino alla città di Eldorado dos Carajás causando la morte di 19 manifestanti del “Movimento dei senza terra”.

Il volume vede la memorabile prefazione di José Saramago, considerato il più grande poeta contemporaneo, che annota nel suo diario: “Sebastião Salgado è venuto qui per chiedermi di scrivere alcune pagine per il libro. Lo farò, anche se so in anticipo che, alla luce di ciò che ho appena visto, tutte le parole sono troppe, troppe. O meno”. Lo scrittore annota anche: “Sono immagini impressionanti dell’occupazione di tenute lasciate incolte dai proprietari, immagini della repressione poliziesca e di uomini armati al soldo del latifondo, immagini di assassinati, immagini di persone che vogliono lavorare e non hanno un posto dove andare, che vogliono mangiare e non hanno nulla”.
Con “Exodus. In cammino” e “Ritratti di bambini in cammino” (1999, editi in Italia da Contrasto) Salgado si mette per sei anni sulle tracce dei popoli senza più radici esplorando, a tutte le latitudini, il tema delle migrazioni di massa causate dall’impatto della globalizzazione, dal crescente divario tra ricchi e poveri, dalla pressione demografica, dalla meccanizzazione dell’agricoltura, dalle guerre, dalle carestie, ecc.

Partenze, approdi e campi profughi raccontano il destino incerto di milioni di rifugiati portando alla luce una mappa del mondo nascosta sotto quella ufficiale.
L’esodo di intere popolazioni riguarda anche i nuovi flussi migratori dei contadini verso le megalopoli del Terzo Mondo, o verso le nuove capitali asiatiche della sur-modernità dove si erige il volto urbano del globo sulle spalle di migliaia di persone in fuga dalla povertà rurale che credono di migliorare la propria vita e si ritrovano nella precarietà delle baraccopoli.
Nel 2013 Salgado completa il progetto “Genesi” – che definisce “la mia lettera d’amore al pianeta” – dopo una spedizione durata otto anni con ogni mezzo (compresa la mongolfiera) alla scoperta di montagne, deserti, oceani e animali.
L’opera viene realizzata dopo il reportage sul Rwanda (come già evidenziato prima) e segna un profondo cambiamento nel suo lavoro: per la prima volta, il fotografo brasiliano non mette più al centro della macchina l’uomo ma la terra e la natura incontaminate, sfuggite all’impatto della modernità in un corpus di immagini che sembra realizzato nella notte dei tempi, all’origine della vita.
Ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, nel 2014, Wim Wenders gli dedica un documentario monumentale, “Il sale della terra”, che traccia l’itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano.
Wenders racconta di aver trovato per caso, in un negozio di chincaglierie di Parigi, la fotografia di una rifugiata scattata in Mali nel 1985 e di essere rimasto folgorato, senza nemmeno conoscerne l’autore, da quel busto che emerge dal buio di tre quarti con il volto semicoperto da una veste in cui si vede un unico occhio innaturale, vitreo, cieco (immagine in copertina all’articolo).

Stregato dalla forza magnetica di quel non-sguardo così espressivo e dalle ombre pesanti che scolpiscono il volto dolente di quella donna, Wenders si mette sulle tracce dell’autore e nel documentario abdica a molte delle sue consuete scelte linguistiche per uniformarsi all’universo salgadiano, al valore iconico delle sue immagini, alla sua cromia minimale.
Al confine fra guerre e carestie, fra ingiustizie e disumanizzazione, con la Leica in mano, nessun altro fotografo ha scandagliato come Salgado i corpi e le anime nel gigantesco affresco della sua personale antropologia dei “miserabili”.

Come in una sorta di Cappella Sistina della contemporaneità, Salgado ha composto una galleria di ritratti fatta dagli ultimi, da donne con i bambini in braccio in fuga nel deserto come in certi dipinti rinascimentali, da minatori incarnati nella plasticità di corpi che salgono e scendono le scale come i personaggi di Michelangelo si arrampicano verso il cielo o precipitano nella dannazione nel Giudizio Universale, da vigili del fuoco anneriti dal petrolio e dalla fuliggine del fuoco in un paesaggio più simile all’Inferno che alla Terra.
E con lui si chiude, dopo due secoli, la grande stagione dell’arte fotografica. Al suo posto gli smartphone e le immagini satellitari dell’Intelligenza Artificiale esattamente come l’invenzione della macchina fotografica mandò di colpo in pensione, nel 1826, migliaia di pittori ritrattisti e paesaggisti (e non a caso l’arte moderna troverà una via di salvezza volgendosi verso l’astrattismo).
Termina, quindi, il lungo viaggio in bianco e nero di un genio che, fra conflitti e crisi globali, ha saputo raccontare la condizione umana in tutta la sua fragilità e grandezza, in tutti i suoi chiaroscuri, affidando alla fotografia il compito più alto: quello di capire, raccontare, trasformare. I suoi scatti continueranno a emozionare per la potenza visiva, l’etica profonda, il potere di portare alla conoscenza del mondo alcune delle grandi tragedie ignorate da questo nostro tempo cieco a sé stesso. Salgado ha offerto uno sguardo che continua a guardarci.

“Roland Barthes, nel suo libro Camera Lucida, affermava che la fotografia, più che il cinema o la televisione, è la memoria collettiva del mondo. Per come la vedo io, ha ragione su questo: la fotografia immortala un momento, che poi diventa un simbolo, un riferimento. La fotografia è linguaggio universale, non ha bisogno di traduzione. La sua memoria collettiva è uno specchio in cui la nostra società si osserva continuamente“, ha detto in un’intervista.
“Noi abbiamo in mano la chiave del futuro dell’umanità, ma dobbiamo capire il presente. Queste fotografie mostrano una porzione del nostro presente. Non possiamo permetterci di guardare dall’altra parte”.
IMPORTANTE!: Il materiale presente in questo sito (ove non ci siano avvisi particolari) può essere copiato e redistribuito, purché venga citata la fonte. NoGeoingegneria non si assume alcuna responsabilità per gli articoli e il materiale ripubblicato.Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 7.03.2001.