“Eccoci arrivati al dunque. Dopo aver conosciuto il nemico è ora giunto il momento di imparare a difenderci.”
Ricapitolando quanto detto finora:
1. Fin dall’alba dei tempi il nostro orgoglio smisurato ci ha portato a rivaleggiare con Dio, illudendoci di non avere più bisogno di lui e di potercela cavare da soli grazie alla nostra conoscenza.
2. All’inizio dell’era moderna la scienza ha raccolto il testimone della sapienza antica, razionalizzandola e depurandola dai suoi aspetti mistici. Al contempo però la scienza ha cominciato a invadere i campi della politica e della religione, trasformandosi a propria volta in un’ideologia sacralizzata, lo scientismo, le cui manifestazioni storiche sono il positivismo, il socialismo (in tutte le sue varianti: di destra, di sinistra e di centro) ed infine il transumanesimo.
3. La pandemia attuale si è rivelata funzionale all’instaurazione di un nuovo totalitarismo tecnocratico fondato sulla biosicurezza, di cui oggi cominciano a delinearsi gli inquietanti contorni.
Possiamo dire quindi che la pandemia ha semplicemente portato a compimento un processo in corso da tempo, tanto che già un secolo fa, come abbiamo visto, intellettuali come Huxley, Ellul e Brzezinski ne avevano previsto gli esiti con straordinaria precisione.
“Il mondo nuovo”, o la “nuova normalità” che dir si voglia, è caratterizzato da una drammatica atomizzazione sociale — per cui gli individui sono sempre più isolati, impauriti, diffidenti l’uno dell’altro — e da una altrettanto drammatica invasione dello stato nella sfera privata — per cui ogni aspetto della nostra vita viene messo sotto sorveglianza e perfino le libertà fondamentali come il movimento o l’associazione diventano subordinate all’adesione al regime.
Queste, come spiegava Hannah Arendt (1951), sono esattamente le condizioni che si ritrovano all’origine di ogni totalitarismo. Ed ugualmente comuni, avvertiva la Arendt, sono i tentativi di “razionalizzazione” da parte dell’opinione pubblica, che portano immancabilmente a minimizzare il pericolo e a convincersi che non ci sia nulla di davvero preoccupante: “La strada verso il dominio totalitario procede attraverso una serie di passaggi intermedi… Quello che il senso comune e la “gente normale” si rifiuta di credere è che tutto diventa possibile.”
Il totalitarismo moderno, come i suoi antecedenti del secolo scorso, fa appello ad una presunta infallibilità della Scienza per giustificare il suo attacco alle libertà personali, di fatto pervertendo il metodo scientifico e trasformandolo in uno strumento di propaganda e manipolazione. Ma la caratteristica peculiare del nuovo regime è la strana allenza tra scientismo e vittimismo, che si può riscontrare tanto nella narrativa pandemica (dagli angeli in camice bianco alle celebrità che enfatizzano il loro travaglio) quanto in quella climatica (vedi i richiami patetico-scientifici di Greta Thunberg: “How dare you!”) e perfino in tutte quelle cause politico-identitarie che monopolizzano il dibattito pubblico odierno come il razzismo o l’identità di genere.
Insomma, siamo davvero arrivati al punto in cui il potere si traveste da oppresso, il carnefice da vittima, il lupo da agnello. Il totalitarismo nascente riesce a essere più pervasivo dei precedenti grazie all’uso delle nuove tecnologie e più subdolo grazie alla sua patina buonista. Con abile ribaltamento dialettico, esso riesce a rivolgere il senso di colpa nei confronti delle minoranze perseguitate contro chiunque si opponga alla nuova ideologia dominante, funzionale a sradicare ogni identità culturale, etnica e psicofisica dell’uomo per fare spazio all’uomo nuovo, quell’essere nato in provetta che Huxley immaginava transumano o subumano a seconda dell’appartenenza alla casta dei controllori o al popolo di schiavi.
Di fronte a questo inaudito attacco contro la natura umana, travolti da una propaganda martellante e circondati da un popolo apatico e indifferente che sembra totalmente succube della narrativa ufficiale, è facile perdere ogni speranza e rassegnarsi al peggio. Ma non bisogna disperare. Nonostante sembri quasi impossibile da fermare, il totalitarismo tecnocratico non avrà vinto fintantoché ci saranno al mondo uomini e donne che rifiuteranno di conformarsi alla menzogna generale e continueranno a testimoniare la verità. Come dice un antico proverbio russo: “Una sola parola di verità può vincere il mondo intero.” Benvengano quindi i valorosi sforzi da parte di alcune piattaforme alternative e giornalisti indipendenti nell’impostare una contro-narrazione. Ma tali sforzi, per qunto utili, non sono sufficienti. Parafrasando Orwell in 1984, non è vincendo un argomento intellettuale che si preserva il patrimonio umano ma rimanendo ancorati alla realtà. Le parole devono trasformarsi in fatti. La contro-narrazione deve diventare uno stile di vita alternativo. Ed è proprio della definizione di questo stile di vita di cui andremo ad occuparci nel proseguo del capitolo.
La resistenza inizia da sé stessi
Invece di sentirci affranti perché il mondo non sarà più come prima, dovremmo essere grati di poter vivere questo passaggio epocale e avere l’opportunità di dimostrare chi siamo davvero. Le circostanze ci impongono infatti di uscire dalla mediocrità stagnante della società dei consumi e prendere una decisione irrevocabile: o col regime, o con la resistenza.
La decisione è in primo luogo personale, intima. Non si tratta infatti di organizzare una insurrezione armata per rovesciare il regime. Si tratta di capire fino a che punto siamo pronti a soffrire, fino a quanto siamo disposti a sopportare pur di non conformarci ad un sistema che riteniamo ingiusto. Da questa valutazione, che va fatta con tutta onestà, emergerà il nostro carattere. Non è necessario avere tutti la stoffa eroica di un Solženicyn, il dissidente russo che raccontò al mondo l’incubo dei gulag. Basta rendersi conto che far parte della resistenza comporterà tutta una serie di sacrifici, dalla perdita di certe amicizie alle difficoltà sul lavoro. D’altra parte, la resistenza ci farà incontrare nuovi amici, e infonderà alle nostre vite un senso nuovo.
Per Solženicyn il primo passo verso la liberazione era il rifiuto personale di partecipare alla menzogna collettiva: “Anche se la menzogna copre il mondo intero, anche se domina ogni cosa, noi nel nostro piccolo ci impuntiamo: domini quanto le pare ma non per opera mia!” Per riuscire a far passare la sua menzogna per verità, ogni totalitarismo necessita del consenso unanime dei propri sudditi. Anche un solo rifiuto incrina l’autorità del regime, dimostrandone l’arbitrarietà e testimoniando che un’alternativa è possibile. Essere testimoni della verità, oggi come allora, passa certamente per un certo grado di disobbedienza civile: non in modo provocatorio ma in modo dignitoso infatti, dobbiamo rifiutarci di sottostare a quelle regole e a quei costumi che riteniamo falsi e degradanti, e, senza timore di essere l’unica voce fuori dal coro, farci portavoce della verità.
Scegliere di vivere controcorrente richiede grande coraggio e integrità personale. Ma il peso di tale scelta, per una persona sola, può rivelarsi intollerabile. Non a caso il regime ci vuole isolare: divide et impera, dicevano già gli antichi romani. Isolati siamo più fragili, più manipolabili, e resistere diventa praticamente impossibile. Per questo si rende necessario costruire una rete di resistenza solidale, che offra alle persone che rifiutano il sistema il supporto necessario (logistico e morale) per resistergli senza esserne travolte. Cominciando dalle nostre comunità locali e dalle proprie cerchie di amici/conoscenti, iniziamo quindi a stringere rapporti con chi dimostra di avere coscienza del pericolo e determinazione nell’affrontarlo a testa alta. Organizziamo gruppi di discussione, eventi culturali, associazioni di mutuo soccorso e di sostegno economico. Per i più radicali, valutiamo di trasferirci in comunità resistenti ai margini della società, dove iniziare a mettere in pratica un nuovo modo di vivere.
Tecnologie conviviali
All’inizio degli anni ’70, riprendendo gli studi di Ellul, Ivan Illich constatava come la società industriale avesse ormai raggiunto il grado di sviluppo in cui “l’uomo diviene l’accessorio della megamacchina.” Da strumento pensato per servire l’uomo, la macchina cominciava a fare dell’uomo il suo schiavo. Per Illich, la soluzione alla crisi passava per “un radicale rovesciamento” delle priorità: la società industriale, con le sue esigenze di massimizzazione della produzione e del consumo, doveva lasciare il posto ad una società conviviale, dove a prevalere fosse “la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni.” Per fare questo non bastava “collettivizzare i mezzi di produzione”, come proposto da Marx, bisognava piuttosto fare una cernita di quali strumenti fossero consoni ad uno stile di vita che rispettasse l’autonomia e la spontaneità dell’uomo e quali invece si prestassero troppo facilmente alla monopolizzazione da parte di una minoranza di esperti. Per operare tale distinzione e metterla in pratica, pensava Illich, sarebbe stata necessaria una certa disposizione all’austerità, intesa non come isolamento o chiusura in sé stessi bensì nel senso aristotelico e tomistico di “virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano e ostacolano le relazioni personali.” Un’austerità così intesa non è altro che quella sobria moderazione e rispetto del limite che già per i greci stava alla base di ogni vera gioia e convivenza amicale.
Purtroppo i sogni di Illich non si sono realizzati. Oggi più che mai viviamo in un mondo intriso di tecnologia, e non si tratta certo di tecnologia conviviale. Prendiamo l’esempio più ovvio: i cosiddetti telefonini intelligenti, o smartphones, forse lo strumento col tasso di diffusione più rapido di tutta la storia dell’uomo. L’impatto di tale tecnologia è stato a dir poco rivoluzionario. Passiamo gran parte della nostra vita al telefono, per lavorare, studiare, svagarci. Con la scusa della pandemia perfino molte relazioni interpersonali, dalla didattica ai rapporti amorosi (sic!), sono ora vissute a distanza, mediate da questi apparecchi elettronici. E tutti, o quasi, abbiamo sviluppato con essi un rapporto di dipendenza compulsiva, in molti casi tendente al patologico. Quelle stesse tecnologie che ci avevano sedotto promettendoci un maggiore controllo sulle nostre vite, sono oggi diventati strumenti di cui non possiamo più fare a meno, e che di fatto ci controllano. Che fare?
Non basta rassicurarsi che in fondo nel nostro caso la dipendenza non è poi così grave o che il nostro lavoro lo richiede. L’accesso continuo ad internet, che sembra aprirci infinite possibilità, ci anestetizza invece ogni giorno di più, rovinando tanto la nostra socialità quanto la nostra salute, e abituandoci a vivere in uno stato di cattività passiva dentro una gabbia digitale che pare disegnata su misura per noi. Diversi studi scientifici hanno mostrato come le tecnologie informatiche non alterino soltanto il nostro stile di vita e di comunicazione, ma anche la cablatura stessa del nostro cervello. Di recente, un’equipe di psichiatri ha scoperto che il tanto incensato multi-tasking praticato dalle nuove generazioni produce come effetti collaterali tutta una serie di deficit cognitivi quali una ridotta soglia di attenzione, difficoltà di concentrazione e perdita di memoria. Infine, aderendo acriticamente allo stile di vita tecnologico, noi partecipiamo più o meno consapevolmente alla grande liturgia culturale della modernità, con la sua visione meccanicistica dell’uomo, il suo disprezzo per la tradizione e il suo culto del progresso.
L’accellerazione dovuta alla pandemia ci ha dato un piccolo assaggio di dove conduca questa deriva tecno-digitale: l’uomo del futuro, per come lo vuole l’ideologia dominante, è sempre più disincarnato, sempre più connesso simbioticamente coi suoi dispositivi elettronici, in una parola sempre più cyborg.
Forse arrivati a questo punto non riusciremo a invertire la tendenza. Forse cercare di inculcare buon senso in un mondo uscito di senno è una missione impossibile. Ma semplicemente rimanendo noi stessi sani in un mondo di folli, erigendo bastioni di umanità ed oasi di consapevolezza in questa terra sempre più desolata, riusciremo a mantenere viva la speranza di un mondo migliore.
Per prima cosa bisogna dare l’esempio. È fondamentale autoimporsi una rigida disciplina che limiti l’utilizzo di tali apparecchi. Da spegnere le notifiche, a stabilire fascie orarie dedicate, a prendersi periodi di astinenza totale: le opzioni di disintossicazione o digiuno digitale sono tante, scegliete quella che fa al caso vostro! Successivamente sollevate la questione con le persone che vi stanno attorno. Se avete bambini piccoli, proibitegli l’uso del cellulare: meglio prendersi del talebano che esporli ad una dipendenza così pericolosa. Se avete ragazzi adolescenti, cercate di limitarne l’uso a poche ore al giorno e soprattutto coinvolgeteli il più possibile in attività ricreative all’aperto o in hobby “analogici” come la musica, il cucito, la meccanica…
Da un punto di vista strutturale, “convivializzare” le tecnologie digitali comporterebbe un radicale ripensamento dell’intera architettura di rete. Internet come lo conosciamo nasce come progetto militare e ancora oggi è sotto esclusivo controllo del governo americano. Unica alternativa a questo modello centralizzato in cui i governi e le grandi aziende la fanno da padrone sarebbe un internet distribuito, in cui ciascun utente funga al contempo da “nodo” in una rete gestita così da tutti e da nessuno. Esempi pioneristici in tal senso sono Guifi, un network attivo soprattutto nel nord-est della Spagna, e Holochain, un progetto con ambizioni globali che di recente ha perfino lanciato la sua criptovaluta.
Più in generale, affinchè l’umanità (o almeno una parte di essa) riprenda il controllo del progresso tecnologico e smetta di esserne travolta, è necessario ricominciare a produrre i propri strumenti a livello personale e locale. Lo status di meri utenti consumatori ci rende del tutto incapaci di avere una voce in capitolo nell’indirizzare lo sviluppo tecnico verso finalità condivise da tutti e rispettose della nostra autonomia. Questo significa che dobbiamo riscoprire le antiche arti e mestieri dell’era pre-industriale (dall’agricoltura alla falegnameria, dalla metallurgia alla ceramica), ma anche che dobbiamo reinventare un’apparato industriale su scala umana, attraverso una rete di cooperative locali che sappia fornire alla resistenza i materiali e gli utensili necessari per praticare uno stile di vita dignitoso. La tecnologia in sé non è nostra nemica: si tratta semplicemente di ristabilire, come voleva Illich, le giuste priorità, mettendo i mezzi al servizio dei fini e non viceversa.
Un set modulare per la costruzione di eco-villaggi
Alla resistenza conviviale però non bastano le basi infrastrutturali e tecniche. Essa deve diventare la fucina di una nuova cultura, capace sia di rivalorizzare le radici col passato che di immaginare strade alternative per il futuro.
Cultura convivale
Opporsi al sistema non è la strategia giusta. Così si fa solo il gioco dell’ideologia dominante, che vuole dipingere sé stessa come santa paladina del progresso e chiunque non sia d’accordo con lei come un bieco e retrogrado conservatore. Piuttosto, quello che dobbiamo fare è confutare il suo monopolio dell’idea di futuro. In tutti i campi, dall’ambiente alla sessualità alla vita dello spirito, la resistenza non deve solo criticare lo status quo ma proporre modelli alternativi di vita e di sviluppo.
Da questo punto di vista sarà fondamentale organizzare un sistema educativo parallelo, soprattutto per per le nuove generazioni. Anche qui le opzioni sono tante, dall’istruzione parentale alle scuole di comunità. Inoltre, vista la piega recente presa dalle università, sarà necessario favorire la nascita di nuovi istituti di formazione superiore autogestiti da associazioni di studenti e professori. Infine sarà importante anche organizzare gruppi di studio, convegni e conferenze per adulti, dove approfondire tematiche di attualità ed allargare la rete dei contatti.
Riguardo poi ai contenuti di questa cultura resistente, facciamo una veloce panoramica dei temi principali partendo dalla cura per l’ambiente. Gli squilibri attuali che minacciano la vita sulla terra sono dovuti in larga parte dallo sconsiderato abuso di risorse naturali perpetrato dalla civiltà industriale negli ultimi due secoli. Oggi, la stessa classe dirigente che ci ha portato in questa situazione pretende anche di farci la morale nascondendosi dietro l’innocenza di una ragazzina. Ma al di là di questa inaccettabile ipocrisia, il vero problema è che le soluzioni proposte sono inadeguate: esse trattano la questione da un punto di vista esclusivamente tecnico, e pensano di risolverla semplicemente affidandola ad una casta di tecnocrati. Questa strada non porta al rispetto dell’uomo per l’ambiente, ma all’eco-fascismo! La risposta alternativa a questa ennesima follia tecnocratica si può sintetizzare col termine permacultura: trattasi di un approccio dal basso, che privilegia l’applicazione nel piccolo e nel locale, e che intende lavorare con e non contro la natura, riducendo le intrusioni umane al minimo necessario e massimizzando le interazioni benefiche tra gli organismi viventi nel loro habitat naturale.
Un’altra tematica decisiva è quella della sessualità, o meglio, delle relazioni amorose. Anche solo la riduzione dell’amore alla sessualità è sintomatica della nostra decadenza culturale. Viviamo nell’epoca che il sociologo Zygmund Bauman chiamava “dell’amore liquido”, in cui siamo diventati tanto plagiati dal consumismo di massa che pretendiamo dall’amore lo stesso che pretendiamo da ogni altro prodotto: novità, varietà e intercambiabilità. Vogliamo che il sesso sia un po’ come fare shopping: che sia trasparente e immediatamente gratificante. Il problema è che non è così, e quindi, mentre esplodono le vendite di viagra e le visite sui siti porno, la nostra vita amorosa e sessuale diventa sempre più triste e noi ci ritroviamo sempre più soli. La soluzione a nostro avviso non è di cambiare sesso, ma di riscoprire valori quali la stabilità affettiva, la fedeltà di coppia e perchè no, se non abbiamo un partner adeguato, perfino la castità. L’illusione che la libertà significhi poter fare tutto quello che ci pare è una delle grandi menzogne dell’era moderna, quando invece, come sapevano bene gli antichi, alla base di ogni libertà c’è sempre l’autocontrollo.
Per concludere tratteremo un ultimo tema, spesso trascurato ma di centrale importanza per l’uomo: quello della spiritualità. Secondo il sociologo Philip Rieff (1966), a partire dal secolo scorso l’umanità vive in un mondo post-religioso in cui ogni principio trascendente è stato sostituito da una ricerca totalmente intramondana del piacere e della felicità, intesa principalmente come assenza o riduzione del dolore. In questa modalità di esistenza, che Rieff definisce “terapeutica”, la salute e la felicità assurgono ad idoli incontrastati. Con la morte di Dio la vita dell’uomo si ritrova spogliata da ogni senso che non sia l’inseguimento edonistico e spesso onanista della realizzazione di sè. Ma è facile vedere come questa non sia la strada che porta alla vera felicità. Su questa terra non si può sfuggire dalla sofferenza senza distruggere allo stesso tempo anche la fonte di ogni felicità. Alla fine del Mondo Nuovo, il dittatore Mond ordina a Giovanni il Selvaggio di lasciare la sua vita nella foresta per tornare ai comfort della civiltà. Ma Giovanni rifiuta la tentazione, dicendo:
“Io non voglio i comfort. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato.”
“Insomma,” disse Mustafà Mond “tu reclami il diritto di essere infelice.”
“Ebbene, sí” disse il Selvaggio con tono di sfida “io reclamo il diritto di essere infelice.”
Questo è il prezzo della libertà. Questo è quanto significa vivere in verità. Non c’è altra via. Non si può fuggire dal campo di battaglia. Il prezzo della libertà è un’eterna vigilanza — prima di tutto sui nostri cuori. Come diceva Gesú Cristo:
“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire sia l’anima che il corpo nella Geenna.” — (Mt. 10, 28). Per chi fosse interessato ad una prospettiva più propriamente cristiana della resistenza, rinvio ai libri di Rod Dreher L’opzione Benedetto (2017) e Vivere senza menzogna (2020), da cui mi sono liberamente ispirato.
FONTE https://federiconicolapecchini.medium.com/la-resistenza-conviviale-283f7c958e54
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