Il libro scomodo del generale Mini, ex comandante della Kfor,la forza internazionale a guida Nato in Kosovo

Fabio Mini

Della guerra si colgono in genere gli aspetti eroici o drammatici. Ma la guerra non è solo potenza: «è anche inganno sottile, nascosto, come a sua volta è l’inganno della politica che deve dettare le condizioni della guerra e fissarne gli scopi». «Perché siamo così ipocriti sulla guerra?» è la domanda posta dal generale di corpo d’armata Fabio Mini nel suo ultimo libro, edito da Chiarelettere, da oggi in libreria. Mini, 69 anni, è stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace a guida Nato in Kosovo (Kfor).

Ormai è deciso: staremo in Afghanistan anche dopo il 2014, dopo il previsto ritiro dei soldati americani. Non si tratta di combattere il terrorismo globale tra le montagne afgane: non ci crede più nessuno. Ufficialmente dobbiamo addestrare le forze militari e di polizia afghane a badare alla sicurezza del loro paese. Visto che questo pacifico e interminabile compito è anche lo stesso che da dieci anni maschera la nostra partecipazione alla guerra in Afghanistan, viene il sospetto che sia un pretesto per continuarla. È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l’hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003 quando dovettero coinvolgere la Nato per l’incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell’etica militare per l’incapacità di gestire l’eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati

Dopo la strage

Viene il sospetto che ancora una volta si ricorra all’ipocrisia per giustificare interventi armati decisi da altri scambiando la coesione con la piaggeria. Così staremo all’infinito in Afghanistan, come in Iraq, in Libano e nei Balcani. È dal 1984 che un nostro contingente non rientra avendo concluso la missione affidata. Nel 1994 i nostri soldati e quelli di mezzo mondo si ritirarono dalla Somalia lasciandola in condizioni peggiori di quelle iniziali. Da allora abbiamo preso parte a tutte le guerre mistificate limitandoci ad avvicendare i contingenti senza mai fare un bilancio oggettivo sui risultati, sulle strategie e sui sacrifici compiuti.

L’ipocrisia delle operazioni umanitarie, dell’assistenza militare, della costruzione di nuove nazioni e dell’esportazione della democrazia si è affiancata a quella della guerra e molte volte l’ha sostituita. La minaccia della guerra si è trasformata in «minaccia della pace» e molti guardano ad essa come ad una catastrofe che incombe sui grassi interessi che la guerra garantisce ai soggetti pubblici e privati uniti più o meno saldamente in cosche, cricche, bande. Inoltre la pace mette a nudo più ancora della guerra le carenze politiche, d’idee, strategie, autonomia e dignità nazionale. Per questo è diventata una minaccia per i profittatori, i mediocri e i banditi costringendoli a spostare sulla pace l’ipocrisia della guerra.

Il processo è stato paradossalmente favorito dalla nuova e generalizzata consapevolezza della sicurezza umana. La guerra è intrisa d’ipocrisia: nasce dai pretesti, quasi sempre basati su menzogne, e si conduce con l’inganno politico, strategico ed operativo. Ma mentre sul piano strategico e tattico l’inganno è rivolto al nemico, su quello politico prende di mira anche le proprie istituzioni ed i propri eserciti. La guerra è ipocrita negli scopi quando si affida alla retorica ed invece tratta concretamente d’interessi, di affari. L’ipocrisia della guerra è un’arte con i suoi esponenti geniali, mediocri e meschini; nasconde il gusto quasi lascivo di chi ordina la guerra e perfino di chi la combatte; ed infine serve a far diventare accettabile e normale tutto ciò che succede in guerra: dall’eroismo alla nefandezza.

Per millenni l’ipocrisia ha servito la guerra con diligenza e tuttavia non è riuscita a eliminare i limiti derivanti dalla sua eccezionalità e dalla sua transitorietà. La prima ne ritardava l’avvio subordinandolo a una situazione che rendesse necessario il ricorso alla forza come ultima risorsa. La seconda, la transitorietà, poneva un limite alla durata dei conflitti fino a renderli illegittimi se artificiosamente prolungati. Nel tentativo di eludere tali vincoli i fautori politici, industriali e militari della guerra si sono inventati pretesti inverosimili per renderla «preventiva» e interminabile, per trarre il massimo dei profitti e dell’eccitazione dalla sua costosa e sanguinosa «normalità». Una tale distorsione della guerra ha provocato quella reazione emotiva in favore dell’etica e dell’umanità che caratterizza il nostro tempo.

Forse per la prima volta nella storia la sicurezza è stata percepita in funzione e non in sostituzione dei diritti dell’uomo, della sua salute materiale e ideale, della sua dignità. All’improvviso la guerra è parsa insufficiente a soddisfare le ambizioni e le velleità politiche, a placare gli appetiti degli approfittatori e a coprire le deficienze strategiche, strutturali e operative. E allora l’ipocrisia ha reso permanente la guerra cambiandone il nome, agendo sulla pace, sulla democrazia e sulla libertà che rendono tutto più facile: le ragioni della pace e della solidarietà e le spese per conseguirle non devono essere razionali, eccezionali, limitate e neppure giustificate o sostenibili. Le forze sono composte soltanto di eroi e non necessariamente militari. La vittoria sul campo, quella che portava alla cessazione delle ostilità e della violenza, può finalmente essere evitata. O uccisa.

FONTE

SOLDATI: conversazione con il Generale Fabio Mini

di Anna Luisa Santinelli

[Soldati (Einaudi, pp 125, € 9,00) è l’ultimo saggio scritto in ordine di tempo da Fabio Mini. Di questo Generale “anomalo” (per essere una voce fuori dal coro) ed erudito, la redazione di Carmilla si è già occupata in passato qui e qui. F. Mini è stato Capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa e al vertice della Kfor in Kosovo. Collabora con “la Repubblica” e “Limes”.]

1) Generale, nelle prime pagine del suo libro traccia un distinguo netto tra “tempo di guerra” e “tempo della guerra” (quello che stiamo vivendo). Potrebbe approfondire tale distinzione?

Il tempo di guerra è il periodo che la gente trascorre sotto i bombardamenti. Molti popoli oggi conoscono il tempo di guerra, direttamente, come i nostri nonni e genitori hanno conosciuto quello delle guerre mondiali.

Il tempo della guerra non è la contingenza del conflitto armato ma è il periodo in cui tutto ruota intorno all’idea della guerra, ai suoi riti, alle sue minacce. Questa idea pervade oggi ogni politica e ogni attività internazionale. Sembra che non ci sia più altra soluzione che la guerra, altra chance che la guerra. Per farla le è stato perfino cambiato il nome. Gli stessi sforzi per la pace ruotano attorno all’idea di evitare la guerra e nel frattempo essa è tenuta allo stato di immanenza, con la paura. Il tempo della guerra significa che essa è sovrana e sovrasta ogni attività umana. Mentre il tempo di guerra è razionale perché rappresenta un punto eccezionale di esplosione della violenza, il tempo della guerra, come forma mentale, è una tendenza di lungo periodo e quindi irrazionale perché contrasta con le aspirazioni più utili all’uomo: la pace e la cooperazione fra i popoli. Paradossalmente, si può avere il tempo di guerra mentre si cercano la pace e il rispetto dei diritti, ma il tempo della guerra porta soltanto a percepire i diritti come giustificazione per la guerra. La più grande delle sfide che il presidente Obama deve affrontare sul piano internazionale come leader della nazione più potente e bellicamente preparata del mondo non è soltanto quella di passare dal tempo di guerra a quello di pace. Ma quella di liberarsi dalla schiavitù del tempo della guerra instaurata dai suoi predecessori. E forse nemmeno lui lo sa.

2) Parlando dell’ambito militare, industriale e politico, descrive un’evoluzione (passaggio dalla Guerra fredda agli anni Novanta) nelle modalità di combinazione di questi settori. Attualmente come interagiscono i tre sistemi? E il cambiamento di cui lei parla, cosa ha comportato?

Ho definito questa combinazione come un incesto. E’ un rapporto di commistione fra consanguinei. Non è soltanto un fatto di sistemi che interagiscono ma di sistemi che si autogenerano e persino di stesse persone che perpetuano la propria potenza scambiandosi i posti, i favori e le turpitudini. Non è un fenomeno nuovo, ma in questo triangolo incestuoso la politica aveva sempre mantenuto un primato e gli altri sistemi, quello industriale e quello militare, lo riconoscevano e lo rispettavano. Quando si parlava di fini che giustificavano i mezzi ci si riferiva sempre ai fini di stato, pubblici, a quelli stabiliti dal potere politico che talvolta erano negativi ma nella maggior parte dei casi erano fini positivi. Quello che è successo negli ultimi cinquant’anni ed è stato accelerato negli ultimi venti è la scomparsa di questo primato per cui i fini positivi sono soltanto quelli degli interessi dei sistemi privati. Oggi con la crisi assistiamo al riconoscimento del ruolo statale, ma non tutti lo intendono come ritorno del primato pubblico. Anzi mi sembra che molti ritengano di sfruttare ancora di più il potere di stato, la ricchezza pubblica e gli interessi collettivi a favore degli interessi privati chiamando lo stato, e quindi i cittadini, a pagare anche per gli errori di alcuni gruppi di potere.

3) L’odierno lessico della guerra è spesso ammantato di ipocrisia: “guerra umanitaria”, “azioni chirurgiche”… La “grammatica della guerra” ha tuttavia delle ricadute non indifferenti sulla realtà, basti pensare alla perifrasi “effetto collaterale”. Nel saggio Lei denuncia “il fiorire di fantasie lessicali” e soprattutto smaschera questo genere di linguaggio.
A tale proposito, quali conseguenze ha l’uso dell’espressione “operazione di polizia internazionale” applicata agli scenari di guerra attuali?

Può sembrare una banalità, ma a forza di negare all’avversario il ruolo di nemico trasformandolo in criminale, si è modificata la natura stessa della guerra e si sono gettate le basi per la mancata applicazione delle leggi internazionali che la regolano. Un criminale è perseguito dalla polizia, non dagli eserciti. E quando si usano gli eserciti si devono stabilire le leggi da rispettare. Oggi viviamo nella condizione di avere leggi, costumi e consuetudini di guerra molto precise, ma di non avere nulla di simile per combattere i criminali. Quindi si verificano due fatti strani: gli eserciti credono di non essere soggetti alle leggi di guerra e di non dover garantire alcun diritto ai propri avversari. Gli avversari che non hanno diritti si sentono autorizzati a non avere doveri nei riguardi di nessuno. Si scatena così una guerra non dichiarata e neppure riconosciuta che pone tutti i contendenti al di fuori dei confini stessi stabiliti dal diritto internazionale. Si fanno salti mortali per ribadire almeno i diritti primari dell’uomo, ma sul piano operativo è molto difficile richiedere un trattamento dignitoso per gli avversari dopo averli criminalizzati. In questi ultimi dieci anni abbiamo assistito alla legalizzazione di cose assolutamente inconciliabili sia con il diritto dei conflitti sia con i diritti umani. La prigione afgana di Bagram, quella irachena di Abu Ghraib e Guantanamo sono diventati i luoghi dove la violazione dei diritti umani è legale soltanto perché si è negato ai prigionieri lo status di combattente. I cosiddetti danni collaterali che colpiscono i civili possono essere giustificati con la logica di colpire tutti per non riconoscere ad alcuni uno status di legittimi insorti. A questa logica appartengono anche i rapimenti e le torture. In realtà, le cosiddette operazioni di polizia internazionale utilizzate per combattere insorti, per invadere paesi e per cambiare regimi antipatici hanno accentuato il rischio di trasformare le forze militari in strumenti criminali: contro la loro stessa legge, ma non sempre contro la loro volontà.

4) … mentre la nozione di “vittoria”, obiettivo finale di ogni conflitto, entra in cortocircuito se associata al concetto di “guerra permanente”. Due situazioni inconciliabili, giusto?

Esatto. Non c’è vittoria se la guerra non finisce. E solo dopo la guerra si può constatare chi ha veramente vinto e cosa ha veramente prevalso.

5) Riporto le sue parole (pag. 13):

«Se la struttura organizzativa di al-Qaeda viene colpita e dispersa, quella ideologica acquisisce nuovi seguaci e fa propria la stessa teoria dello scontro di civiltà inventata in Occidente per giustificare la guerra globale. La risposta occidentale è soltanto la guerra, ma non quella nuova che la situazione richiederebbe e che nessuno ha ancora saputo individuare nonostante le indicazioni di pochi e onesti studiosi come i colonelli cinesi  Qiao Liang e Wang Xiangsui, ma quella vecchia, tecnologica e pur sempre tradizionale, nella sua anacronistica e ottusa linearità. […] la struttura operativa del terrorismo si frammenta ed espande, ricorre indifferentemente a strumenti e logiche primordiali e alla tecnologia, supera le nazioni e gli Stati e si nutre di ogni possibile motivo di adesione anche temporaneo e distante dagli scopi del nucleo originale.»

Perché l’Occidente adotta ancora misure “clausewitziane”, da guerra convenzionale, contro un avversario proteiforme capace di tali sottigliezze strategiche?

La logica occidentale di contrasto alle forme di eversione e di violenza terroristica non si è né attenuta fedelmente a quella clausewitziana né si è evoluta in relazione alla nuova minaccia. E’ rimasta a metà e allora sono prevalse le pulsioni reattive, le misure di forza e perfino l’uso improprio della forza militare. Quando gli stati si sono trovati in difetto di legittimità nel condurre operazioni militari con le forze regolari sono ricorsi ai mercenari e alle operazioni segrete violentando la loro stessa natura e dimenticando che il segreto non autorizza l’illegalità e comunque ci sono dei limiti “di civiltà” che nessuno, per nessuna ragione dovrebbe superare. In pratica si è attinto al peggio di due eventi antichi come il mondo: la guerra fra simili e la repressione dei diversi.

6) Riguardo alle spese per la Difesa in Italia, alcuni passaggi del suo libro sono particolarmente espliciti:

«C’è la pratica ormai dilagante della contabilità “creativa”, figlia naturale della finanza “creativa”: quel nuovo settore della magia bianca grazie al quale i debiti e le elargizioni ai gruppi di pressione diventano investimenti, le spese fisse per il personale sono spese improduttive opinabili, le spese di gestione e funzionamento sono perdite e le perdite di patrimonio o le speculazioni ai danni del capitale dello Stato diventano entrate produttive.

[…]

I nostri stessi vertici militari non si sono privati del piacere di perorare presso la Nato gli interessi dei gruppi industriali di riferimento prendendo parte attiva alle “promozioni” sponsorizzate (pagate) da essi. E quando si tratta di impegni internazionali assunti, dimentichiamo in quale contesto e chi li ha assunti a nome del paese. Spesso vengono da vere e proprie fanfaronate da salotto, da logiche di profitto, da un’errata concezione dei doveri, dal protagonismo individuale […] E così da quindici anni abbiamo un modello della Difesa che finge di prevedere quanti uomini servono alla sicurezza mentre in realtà pensa a quanti aerei , carri e navi possono produrre 190 000 soldati, tutti professionisti. […] Sei bersaglieri fanno un blindato da un milione di euro, tre carristi un carro da due, un pilota fa un aereo da novanta milioni e un centinaio di marinai fanno una nave da un paio di miliardi. Di euro.»

Generale, uscire da una situazione simile che, a prescindere dal “colore” dei governi in carica, perdura da così tanto tempo, è fattibile? Come?

Penso che oltre che fattibile sia doveroso e non soltanto per una semplice questione di soldi. Dobbiamo finalmente analizzare quanta insicurezza esiste, che cosa la produce e chi ne trae vantaggio. Dobbiamo farlo insieme con altri paesi che a parole condividono gli stessi valori di democrazia e pace. Se facciamo questa analisi in maniera seria ci possiamo rendere conto che gli strumenti militari attuali non sono adatti a controllare molte delle minacce che incombono o a fugare la paura e incrementare la sicurezza. Ci possiamo rendere conto che ci servono strumenti diversi e che ci basterebbero risorse contenute. Tutti assieme, ad esempio in Europa, possiamo avere uno strumento efficiente, moderno e veramente utile senza dissanguare le nostre casse pubbliche, senza chiedere ai soldati sacrifici inutili e senza mandarli in operazioni inconcludenti solo per far piacere a qualche politicante. Questo vorrebbe dire tornare al primato della Politica, quella vera, quella che bada agli interessi di tutti. Purtroppo non vedo grandi iniziative in questo senso. Tuttavia c’è un fenomeno naturale che di tanto in tanto si scatena in situazioni simili: l’entropia. Con la frenesia, l’ebollizione e le avventure i sistemi diventano instabili e implodono. Non è un processo istantaneo e le avvisaglie sono sempre molto chiare. La crisi che stiamo attraversando è un segnale di entropia globale. Sta a noi interpretare i segnali e adottare le misure di correzione anche nel campo della sicurezza.

7) Una domanda su *emergenza sicurezza/controllo del territorio*: per le strade italiane ronde di cittadini più o meno legalizzate e impiego di militari. Quale tipo di logica sottende queste recenti scelte politiche? Un suo parere.

Sono il segno di una regressione intellettuale prima che operativa. Ma è anche colpa delle forze operative della sicurezza, di tutte, se si è arrivati a questa regressione. In questi ultimi anni non c’è stato nessuno che ha messo sufficiente impegno nel dimostrare che il controllo del territorio è un fattore di sicurezza essenzialmente percettivo. Mentre si conseguivano successi eccezionali contro la criminalità organizzata e si ricostruivano sofisticati schemi di criminalità, nessuno ha badato all’impatto sulla gente del piccolo crimine, dello stupro e del furto. Nessuno ha saputo cogliere i segnali che pure sono stati mandati da tutte le forze dell’esercito e di sicurezza durante le operazioni internazionali. Nessuno ha badato all’inutilità, provata in contesti anche più semplici, dei semplici pattugliamenti, dei presidi fissi, dei posti di blocco, delle uniformi sgargianti e dell’aspetto bellicoso delle forze. Nessuno ha voluto ascoltare i suggerimenti rivolti al cambiamento degli assetti e all’enfasi da dare alle informazioni e alle operazioni mirate, guidate appunto dalle informazioni, piuttosto che fare sceneggiate davanti alle telecamere. Nessuno ha colto i segnali di nuovi bisogni di sicurezza che venivano proprio dalle reazioni della gente alle interminabili e oniriche serie propagandistiche sulle forze di sicurezza. Le varie serie hanno cercato di spacciare come normali ed eroici dei comportamenti e modelli che non hanno alcun riscontro nella realtà. Tutti si sono accorti del divario tra realtà e fantasia e la percezione d’insicurezza è aumentata anche a dispetto dei dati oggettivi sulla diminuzione della criminalità. Purtroppo anche in questo caso si è voluto ignorare che mentre i reati calavano di numero la sensibilità della gente a tutti i tipi di reato è aumentata in modo esponenziale. Ciò che ieri era vissuto come un fatto di cronaca oggi è una tragedia collettiva: ed è questa la realtà che avrebbe dovuto indirizzare un nuovo approccio al controllo del territorio. L’impiego dell’esercito nei pattuglioni misti è servito a squalificare ulteriormente le forze di sicurezza, ad ampliare la forbice tra realtà e fantasia o propaganda, a banalizzare l’impiego delle forze armate e ad abbassare la soglia della loro impiegabilità. Le ronde cosiddette volontarie sono la conseguenza culturale di questo processo di negligenza che di fatto indirizza verso gli immigrati e ciò che si vede facilmente le paure della gente e le incapacità operative delle istituzioni. Ed è una cosa che abbiamo già vissuto in maniera drammatica. In più, le ronde rischiano di diventare strumenti di fazioni deliranti e di avventurieri politici. Una conseguenza che nessuno è preparato a gestire e un rischio che non ci possiamo permettere.

8) Esaminando le note biografiche che la riguardano, è inevitabile osservare come la sua franchezza, non abbia ostacolato il suo cursus honorum. Scusi la domanda irriverente, ma… com’è stato possibile?

Mi piace credere di aver raggiunto l’apice della carriera e di aver avuto incarichi di straordinaria importanza grazie all’intelligenza di capi che apprezzavano l’innovazione, le opinioni e lo stimolo a riflettere che venivano dai dipendenti. In questo senso mi ritengo soltanto fortunato. Oggi questa intelligenza non è del tutto scomparsa, ma è molto più difficile che sia apprezzata dai gruppi politici, industriali e militari che, non badando agli interessi pubblici, non hanno bisogno né di consiglieri né tanto meno di critici.

FONTE

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