Di Umberto Rapetto

Abbiamo sentito tutti parlare di “smart city”. E ogni volta la nostra immaginazione ci ha portato a pensare a un vivere migliore, quasi perfetto. A onor del vero preferisco i piccoli borghi, i vicoli ‘ncopp ‘e quartiere a Napoli o i carugi genovesi e ho sempre guardato con diffidenza e paura la permeazione edile delle tecnologie tanto comode quanto pericolose.

Le dimissioni di Ann Cavoukian mi hanno inquietato. Ann è – o meglio era – una dei cervelli di Sidewalks Labs (società consorella di Google) e stava lavorando al futuribile progetto per la realizzazione di Quayside, l’agglomerato urbano digitale alle porte di Toronto che avrebbe dovuto costituire una sorta di modello ideale da clonare e replicare in giro per il mondo.

Ann ha lasciato progetto e lavoro per dare un segnale forte, perché pensava di essere impegnata nella genesi di una smart city basata sulla privacy e non in una sorta di inferno del costante controllo assoluto. Dopo aver ricevuto solenni rassicurazioni sul fatto che le informazioni man mano raccolte per il regolare funzionamento del cyber-villaggio sarebbero state prontamente cancellate al venir meno dell’immediatezza della loro istantanea utilità, la Cavoukian è stata costretta a constatare che i dati personali non ricevevano alcuna delle protezioni promesse e non avevano alcuna tutela in ordine alla loro riservatezza. Una presa d’atto plateale: lei stessa ha dichiarato ai giornalisti di aver visto il baratro nel corso di una riunione in cui si è reso noto che “terze parti” potranno agevolmente accedere (naturalmente dietro corrispettivo) a tutto il patrimonio informativo del distretto tecnologico.

Ann non è la prima a sbattere la porta alle sue spalle per la questione della privacy in Quayside. Nemmeno un mese fa un’altra donna ha lasciato il comitato strategico dell’iniziativa: Saadia Muzaffar – tra l’altro fondatrice di TechGirls Canada – ha dato le dimissioni dopo aver preso atto che le raccomandazioni formulate in tema di privacy non erano state minimamente prese in considerazione. La preoccupazione di un controllo assoluto di ogni persona, oggetto e azione troverebbe riscontro pratico già fin d’ora in Quayside, destinata a profilarsi come la materializzazione della Londra immaginata da George Orwell nel suo 1984.

Non volevo credere a quel che scriveva Jathan Sadowski che insegna Etica della tecnologia al politecnico olandese Technische Universiteit Delft. Un anno fa, sulle pagine del Guardian, Sadowski scriveva “Google vuol governare le città senza esser stato eletto. Non permettiamoglielo” e profilava un orizzonte talmente inquietante da tramutare Dario Argento in uno dei fratelli Grimm.

Ho ragionato parecchio con amici e conoscenti ancora lucidi (circostanza confortante ne esistano ancora) sul rischio di una tecno-dittatura. La discussione spesso è scivolata su temi sdrucciolevoli come la rappresentatività della democrazia, l’indipendenza, la libertà, i diritti. A un certo punto è saltata fuori la storia dell’ europarlamentare Daniela Aiuto che ha denunciato l’esser controllata dai pretoriani di una società di consulenza che cura gli aspetti organizzativi della compagine politica cui lei stessa appartiene.

Il pensiero è così corso a chi – a differenza di Google – è stato eletto e deve governare rispondendo alla propria coscienza e a chi ha gli/le ha dato fiducia e mandato di rappresentanza. Cosa sia successo (e cosa stia succedendo) lo svelerà l’istruttoria avviata dal Parlamento europeo. In attesa di un esito che potrebbe rivelarsi sconcertante, ci si accontenta di temere che un’entità privata (si chiami Google o Casaleggio & Associati è ininfluente) abbia la cloche della gestione del nostro presente e – quel che è peggio – del nostro futuro.

La smart city potrà segnare il capolinea della traiettoria della nostra libertà, ma altre avvisaglie lasciano intendere che già la condizione attuale prelude a una pericolosa sudditanza. La “psicopolizia” che pretenderebbe la password di posta elettronica e social degli eurodeputati mi spaventa più del fiato (pesante) della software house sul collo dei cittadini digitali.

L’ arretratezza tecnologica del nostro Paese può scongiurare il realizzarsi di temibili agglomerati metropolitani cibernetici facilmente monitorabili, ma operazioni mirate su personaggi chiamati a decidere per la collettività possono condurci verso una apocalittica nuova schiavitù. Siccome siamo già sulla buona strada, che ne direste di riprenderci la gestione della nostra vita magari intensificando le attività analogiche e le relazioni umane?

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