di Marzio G. Mian
MILANO – Se Niels Sakariassen sarà sepolto nella fossa che ha scavato nell’orto, allora vorrà dire che lo spirito degli alberi avrà vinto. E i giganti della miniera avranno perso. Niels aveva appena finito di costruirsi da solo la casa, otto anni fa, quando l’australiana GME, Greenland Minerals and Energy, ha cominciato i carotaggi lassù sull’altopiano del Kvanefjeld scoprendo il più grande giacimento al mondo d’uranio e terre rare. Una casetta invidiata, la più bella di Narsaq. Posta ai margini del paese, è adagiata su un rilievo che degrada verso il mare, affacciata su uno dei paesaggi più potenti e incontaminati della Terra: dà proprio sulla baia, a Nord-Est di Narsaq, affollata di centinaia di iceberg che si staccano e scendono dalla calotta glaciale fino a insaccarsi nel piccolo golfo blu indaco; dalla finestra di Niels, l’Ice cap groenlandese è un gigantesco cuneo bianco nell’orizzonte, un abbacinante massiccio che sembra una colata di lava candida, oltre il quale il ghiaccio s’estende per migliaia di chilometri fino al Polo Nord.
«Voglio che i miei figli e i figli dei miei figli vivano qui per sempre; vivere qui è una felicità che non ha prezzo. Nessuno è più ricco di me’, dice. L’ultima Primavera. Ora che il clima è cambiato Niels ha selezionato sei tipi di patate, una produzione arrivata a seicento chili l’anno, abbastanza per famiglia e parenti. Poi rabarbaro, broccoli, cavoli. E soprattutto alberi, un vivaio in miniatura di piccole conifere e arbusti della famiglia del salice piuttosto comuni nella tundra americana, ma qui scomparsi con l’ultima glaciazione. In Groenlandia non esistono gli alberi, per ora. «Ci sono certamente le condizioni per cominciare una nuova economia», dice. Quando ha saputo della miniera ha piantato un boschetto invocando lo spirito degli alberi, chiedendogli di crescere fino a bloccare la vista di Kvanefjeld, un suo modo sciamanico tutto Inuit d’esorcizzare l’inizio delle estrazioni; gli alberi hanno obbedito, se ti metti lì a ridosso delle basse fronde la montagna non la vedi, e infatti Niels quando è assalito allo scoramento si siede ai piedi di quella spaesata macchia verde di cinque metri quadrati, al riparo dallo sguardo della montagna. Ma, di fronte all’impressionante dispiegamento d’investimenti e opere logistiche della GME (compreso un hangar, grande come quattro campi di calcio, costruito tra l’insenatura e l’imbocco della valle), soprattutto constatando la determinazione del governo di Nuuk a compiere un passo epocale per la Groenlandia, ha chiesto allo spirito degli alberi di sostenerlo in un’altra sfida. Con l’aiuto dei figli ha dissodato un nuovo fazzolettino d’orto, eliminato grossi massi fino a tre metri di profondità.
«Se sarò sepolto lì allora vorrà dire che avrò vinto. Perché se aprono la miniera noi ce n’andremo, da qui e dalla Groenlandia: morirò lontano, non posso accettare che proprio la mia terra contribuisca ad avvelenare il Pianeta». Niels, come molti suoi compaesani di Narsaq, potrebbe partire presto, forse già entro la primavera, perché la firma dell’accordo, ora che si sta lavorando all’ultimo studio d’impatto ambientale, pare imminente. In tal caso entro pochi mesi il golfo, liberato dagli iceberg, secondo i piani degli australiani diventerà il porto della GME da cui partiranno i grandi bulk transartici pieni di materiale radioattivo verso la Cina. Una mega miniera d’uranio a cielo aperto in Groenlandia, ecco di cosa parliamo. Quello che accadrà qui, nella minuscola, pittoresca Narsaq, avrà un impatto ben più ampio. E la Groenlandia avrà perso un’innocenza custodita in milioni d’anni d’esistenza eremitica, lontano dalla grande storia dell’umanità. Era quasi la Luna, la Groenlandia. E ora potrebbe diventare una nuova Africa,
un Congo boreale. Il ricatto del bisogno. Nell’Artico capita sempre più spesso d’imbattersi in storie come quella di Niels. Uomini che difendono il loro diritto a non partecipare alla modernità, ad essere lasciati in pace, esclusi dalle leggi del profitto. E si oppongono alla Polar Rush, la corsa di stati e corporation ad accaparrarsi le enormi risorse nella regione ora disponibili grazie allo scioglimento dei ghiacci. Ad esempio nel Nord-Est dell’Islanda avevamo incontrato la famiglia di Reimar Segurjonsson, unico a non voler cedere la sua fattoria sul Finnafjord ad un consorzio internazionale che sta pianificando il più grande porto per le nuove rotte polari sempre più ice-free. «Non ho bisogno dei loro soldi, vogliamo solo la solitudine e il silenzio», aveva detto Reimar. Uomini che ricordano lo studente davanti al tank in piazza Tienanmen. Ma nell’Artico molti difendono il sacrosanto diritto a cogliere le opportunità. A cominciare dalla Groenlandia, un’isola più grande del Messico con una popolazione di 56 mila abitanti, la capienza dello Juventus Stadium; è la terra che concentra più ricchezze al mondo, oro, rubini, zaffiri, diamanti, petrolio, gas… E uranio. Per le conseguenze del cambiamento climatico la Groenlandia è ritenuta l’ultimo Eldorado. Tuttavia soffre più d’ogni altro stato artico disoccupazione e degrado sociale. La sua economia dipende da gamberi e halibut (90 per cento dell’export), ma soprattutto dal sussidio annuale danese, quasi seicento milioni di euro. Che non basta più a garantire il welfare e gli standard cui aspira una popolazione sempre meno isolata dalla globalizzazione. E sempre più determinata a ottenere, attingendo al bendidio sottoterra, la piena indipendenza economica e politica dalla Danimarca, che colonizzò questa terra 300 anni fa.
La Groenlandia negoziò nel 1979 il diritto all’autogoverno, si è dotata negli anni d’istituzioni democratiche e nel 2009 Copenaghen ha riconosciuto a Nuuk, la capitale lillipuziana (16 mila abitanti) dell’isola, il diritto all’autodeterminazione e il controllo delle risorse nazionali. Tutte eccetto l’uranio, materia ritenuta d’interesse strategico nazionale (tra l’altro la Danimarca dal 1985 è un Paese addirittura “anti nucleare”). Eppure quattro anni dopo, per un solo voto, in parlamento è
passato il via libera per estrazione ed esportazione di uranio. Ora in Groenlandia è corsa alle concessioni, appena saliranno i prezzi delle materie prime salirà una febbre degna del Klondike.
A Nuuk per sostenere la via mineraria all’indipendenza governa una grande coalizione, conservatori e sinistra uniti nel nome dello sfruttamento; al Sud invece, nella piccola Narsaq, regna
l’angoscia: molti si chiedono se l’uranio sia il prezzo da pagare per la libertà. Le ombre cinesi. Non puoi vivere in un museo, dice Ib Laursen, operation manager della miniera mentre ci guida sull’altopiano in una fresca mattinata di fine estate. Ib è arrivato dalla Danimarca 31 anni fa; di fronte agli allarmi sul pericolo “africanizzazione” della Groenlandia, si dice convinto che il suo Paese adottivo ha la grande opportunità di dimostrare che puntare sullo sviluppo delle risorse minerarie non vuol dire diventare il Congo del Terzo Millennio.
«Questa non è una repubblica delle banane, ci sono le istituzioni, c’è la trasparenza, è stata creata un’unità scientifica e legale indipendente che controlla ogni aspetto del piano della GME». La compagnia australiana ha già speso 70 milioni di euro per studiare e presentare il progetto di sfruttamento di Kvanefjeld. In settembre è subentrato un partner, la cinese Shenghe Resources Holding Ltd, che ha acquisito il 12 per cento della GME, con una opzione a salire fino al 60 per cento delle azioni. Se da una parte l’operazione ha confermato che a Kvnanefjeld si gioca una partita difficilmente gestibile dagli inesperti Inuit al governo, i quali non sono ancora riusciti a farsi consegnare l’accordo tra le due società, dall’altra inquieta il ruolo della Cina, che potrebbe diventare proprietaria di una miniera estremamente sensibile, perché il mercato dell’uranio è ancora il più opaco, difficile da monitorare.
Operazione magnetica. «Intanto questa non è una miniera di uranio, è una miniera di terre rare», precisa Mr. Laursen, uomo dai modi charmant. «L’ottanta per cento delle estrazioni commerciabili riguarda quegli elementi che servono per l’elettronica, ad esempio per produrre quei cellulari tanto amati anche dagli ambientalisti… L’uranio? Il valore non supera il 10 per cento del totale. Comunque non puoi fare una frittata senza rompere le uova». Kvanefjeld e il complesso di Ilimaussaq attirano geologi da tutto il mondo; all’hotel Narsaq, l’unico del villaggio, abbiamo incontrato il professor Claudio Berti, italiano della Lehigh University in Pennsylvania e uno dei maggiori esperti di questo parco del Mesoproterozoico che è il Sud-Ovest della Groenlandia: «Si tratta di un complesso intrusivo, il valore economico è inestimabile», dice. Laursen conferma che la Cina controlla il mercato delle terre rare e ha il monopolio sulla produzione mondiale. Spiega che i minerali estratti a Kvanefjeld servono anche a produrre super magneti per turbine eoliche e batterie per le auto ibride: «La Groenlandia anziché essere un ricettore passivo del riscaldamento globale, può contribuire alla green technology». Lo slogan della GME è “mining for Greenland”. Una formula geniale per girare la frittata. E promuovere una miniera ad altissimo rischio d’inquinamento radioattivo nella terra diventata la vittima emblematica del global warming; in un Paese dove lo scioglimento del ghiaccio procede molto più velocemente che in tutto l’Artico e ben oltre le previsioni di solo un anno fa; dove cacciatori e pescatori vengono chiamati a testimoniare all’Onu come il processo stia devastando il loro millenario stile di vita. Ciò che il resto del mondo vede come un’angosciante perdita, molti politici groenlandesi trasformano in marketing: «Il vittimismo per gli effetti del cambiamento climatico a Nuuk è uno strumento per fare affari», secondo Ulrik Pram Gad politologo della Aalborg University incontrato a Copenaghen. «Ci sono solo due scelte», ci ha detto Vittus Qujaukitsoq, ministro dell’Industria, dell’Energia e degli Esteri,
nel suo ufficio a Nuuk: «O ti siedi e aspetti che le opportunità vengano a te, oppure ti dai da fare per coglierle. Tutto ha un prezzo, compresa la libertà», ha sibilato Vittus con un sorrisetto beffardo, «dipende solo qual è la volontà della gente a diventare libera».
Il lago discarica. Il piano che siamo riusciti a visionare prevede l’utilizzo della baia per il trasporto della roccia grezza in Cina dove le sostanze delle terre rare saranno separate: «Ci sono almeno 17 diversi componenti, solo i cinesi hanno la ricetta», spiega Laursen. Si scaverà un complesso di tunnel che dalla formazione Kvanefjeld trasporteranno le scorie radioattive nel lago Taseq, sull’altopiano che affaccia sul fiordo. «Rimarranno stoccate sul fondo a 38 metri per almeno cent’anni, l’acqua elimina il radon», garantisce Laursen. «Costruiremo una diga di profondità per impedire che la corrente possa far trasbordare le scorie. A Narsaq possono stare tranquilli, l’acqua sarà sicura, la miniera sarà sicura. Saranno sicuri almeno trecento posti di lavoro sui mille totali previsti». Si calcola che la miniera provvederà allo Stato oltre 120 milioni di euro di tasse l’anno, un settimo del sussidio danese. «La Groenlandia è così grande… non saranno una o due miniere a violarne la verginità», dice Laursen mentre scendiamo a valle. Ad ogni tornante la montagna cambia colore, rosso, ocra, nero, bianco. Poi compare la baia, il candore degli iceberg, striati di blu. Sei chilometri dalla miniera al villaggio. Una media di duecento camion al giorno passeranno di qui, disseminando polvere avvelenata.
Il nuovo esotico. A Narsaq, circa 1.500 abitanti, nessuno conosce la miseria che affligge il villaggio meglio della preside delle medie, Ivalo Motzfeldthas, 43 anni. Il 50 per cento dei ragazzi abbandona la scuola prima dei 16 anni. La disoccupazione sfiora l 50 per cento, la più alta del Paese; nel distretto la popolazione è calata del 10 per cento in 10 anni. «Molti ragazzi soffrono la
fame, non riescono a stare seduti al banco, e la prefettura ha tagliatola mensa. Aumentano i casi di violenza domestica, l’alcolismo, gli abusi sessuali». Ci mostra la stanza delle emergenze,
dove la scuola ospita i ragazzi anche di notte per proteggerli dai genitori. «Ma la soluzione», dice, «non è la miniera. Il cambiamento climatico può sviluppare la nuova agricoltura, o il turismo.
Dicono che il Grande Nord è il nuovo esotico…». «Meglio la miseria della miniera. Quando hai pescato l’ultimo pesce e l’acqua è contaminata non puoi mangiare soldi», spiega con la voce incrinata dall’emozione. Una visita al cimitero aiuta a scoprire il dramma dei suicidi tra i giovani. «Nessuno ne parla, come della miniera», dice Paninnguag Lind Jensen, nel suo laboratorio di tattoo artist. «Noi Inuit non parliamo delle cose negative, non vogliamo disturbare la serenità degli altri». Le lapidi raccontano che nella scorsa primavera sono morti quattro ragazzi sotto i vent’anni in un mese. «Non sono incidenti stradali. Della mia classe delle medie, finora si sono uccisi in cinque». «Ma con la miniera sarà ancora peggio, non esiste un solo caso nel mondo di miniera di uranio a cielo aperto sicura. L’intera Groenlandia del Sud sarà devastata. Ce ne andremo a migliaia».
Lo sgombro fantasma. La situazione è precipitata con la chiusura della fabbrica dei gamberetti, nel 2010. Trecento pescatori disoccupati. I pescherecci che marciscono, come quelli dei fratelli Oleson che davano lavoro a una sessantina di persone, 15 per nave. Sedici tonnellate di gamberetti in tre giorni. Bei soldi, quasi due euro al chilo. «Ora ci solo le grandi navi-fabbrica gestite dal governo, 110 tonnellate in 10 giorni in alto mare, mezzo euro al chilo», dice al piccolo molo Ole Jørgen Davidsen, presidente dell’associazione dei pescatori di Narsaq, «e così noi sulla
costa siamo morti». La Royal Greenland, compagnia monopolistica statale, ha chiuso gli impianti nei settlement e investito sui grandi trawlers: «I gamberi si spostano sempre più a Nord in cerca di acqua più fredda e le navi fabbrica possono inseguirli. Così anche per l’halibut. Il paradosso è che il pesce con il global warming aumenta, ci sono nuove specie come lo sgombro, ma noi non possiamo pescarlo e lavorarlo. La miniera? A questo punto qualsiasi cosa pur di sopravvivere».
Polvere al vento. Qassiarsuk, 40 minuti di motobarca risalendo il fiordo, è l’altro villaggio alle falde del massiccio Kvanefjeld. Da sempre l’acqua del lago Taseq serve per abbeverare le pecore.
L’allevamento degli agnelli da carne andava a gonfie vele, venduti anche al Noma a Copenaghen, ritenuto il migliore ristorante del mondo. «Come potremo usare l’acqua dove verranno stoccate le scorie radioattive?», si chiede Klaus Frederiksen. Con sua moglie Ariaja pascola 600 pecore su 27 ettari. Da qualche anno tribolano a interpretare gli effetti del cambiamento climatico, da una parte fanno piani prevedendo nuovi pascoli e l’incremento del turismo, dall’altra soffrono periodi di siccità
lunghi anche sei mesi, come lo scorso anno. «Abbiamo dovuto importare il fieno dalla Danimarca», dice Klaus. «Una volta bastavano 300 pecore per mantenere una famiglia, ora ne servono
almeno 500». Poi sono arrivati quelli della miniera. «Hanno radunato la comunità nella scuola, erano tre donne e un uomo, tutti danesi», ci raccontano nella loro cucina da cui si vede il ghiacciaio, tributario meridionale della calotta glaciale. «Ci hanno detto che la miniera avrebbe creato prosperità, che avremmo venduto molta carne», ricorda Klaus. «L’uomo spiegò che le polveri sarebbero state eliminate con un sistema di spruzzamento d’acqua… Al che ho fatto notare che siamo in Groenlandia, che d’inverno è piuttosto probabile che l’acqua sia ghiacciata… Mi ha assicurato che la risposta si trova nello studio d’impatto ambientale». Klaus sa cosa significa l’inquinamento radioattivo. Negli anni Novanta lavorava in una fattoria in Norvegia, e ha visto gli effetti di Chernobyl sulle pecore a molti anni di distanza. «Qui il vento soffia 300 giorni l’anno, le polveri radioattive si spargeranno per tutto il Sud della Groenlandia. Nel mondo la nostra immagine non sarà più associata all’orso polare, ma all’uranio». Ci vorrebbe uno spregiudicato uomo di marketing come Erik il Rosso, che sbarcò proprio qui a Qassiarsuk nel 982, stabilendo il primo insediamento europeo con la sua famiglia: il navigatore vichingo riuscì ad attirare altri coloni “vendendo” la nuova terra come fertile e verde, Greenland appunto.
FONTE http://sociale.corriere.it/in-groenlandia-e-luranio-il-prezzo-della-liberta-inchiesta/
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