Dopo il coronavirus, che è stato dichiarato nemico e pericolo globale ed è diventato il pretesto per dare uno scossone autoritario alle nostre società, arriva ora alla ribalta il nemico “cambiamento climatico”. Fare del cambiamento climatico un problema di sicurezza da affrontare con soluzioni militari rafforza enormemente strade distopiche.

Naturalmente, coloro che propongono cause e soluzioni dimenticano regolarmente la loro responsabilità “nell’emissione di gas serra”, cioè il loro ruolo principale nell’inquinamento – che è tutt’altro che CO2 – ovvero il ruolo del complesso militare-industriale nella distruzione del pianeta e, al contrario, lo peggiorano.

Il caos climatico è in belle parti causato da interventi militari, non ultimo nel settore meteorologico e climatico, che viene invece imputato a una molecola che è diventata Belzebù e che in realtà è un elemento costitutivo della vita.

In stretta associazione con i militari, a creare insicurezza, invece di fornire soluzioni, sono coinvolti i giganti dell'”industria della sicurezza”.

Il rapporto Climate change, capitalism and the military del Transnational Institute del 2016 aveva evidenziato un esempio, e ciòè che tre dei principali commercianti europei di armi verso il Nord Africa e il Medio Oriente – Finmecannica, Thales e Airbus – sono anche alcuni dei principali vincitori dei contratti per militarizzare i confini dell’UE. Quindi, traggono profitto due volte – alimentando le guerre che portano ai rifugiati e poi fornendo la tecnologia e le infrastrutture che impediscono ai rifugiati di trovare sicurezza.

L’ultimo rapporto del Transnational Institute ha analizzato alcuni cosiddetti aspetti di sicurezza del clima. Anche qui emergono fatti, contraddizioni e infingimenti.

I rischi della militarizzazione della crisi climatica

Il Transnational Institute ha analizzato gli effetti delle politiche securitarie sul clima: dalla criminalizzazione delle persone in transito al rafforzamento degli apparati militari. Un approccio che non fornisce soluzioni al cambiamento climatico ma ne rafforza gli effetti negativi .

Rendere il cambiamento climatico un problema di sicurezza da affrontare attraverso soluzioni militari apre a pericolose derive. Ad analizzare la “militarizzazione” della crisi climatica, e come si caratterizza, è Nick Buxton, ricercatore del Transnational Institute (Tni), nel saggioThe dangers of militarising the climate crisispubblicato nell’ottobre 2021 e inserito in un filone di studi che Tni ha inaugurato nel 2015 con “The Secure and the Dispossessed. How the military and the corporations are shaping a climate-changed world”

I piani militari per affrontare la crisi climatica, sottolinea l’autore del saggio, si basano su un preciso (ma ipotetico) effetto a catena: le problematiche causate dal cambiamento climatico condurranno a una scarsità di beni che porterà a conflitti le cui soluzioni potranno essere fornite solo in un’ottica securitaria. Questo paradigma, “un filo distopico” secondo la definizione del ricercatore, soffre di una mancanza di base: i piani per la sicurezza si concentrano sulle risposte da dare su impatti già avviati ma non intervengono su ciò che li ha determinati.

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“Ecco la terribile verità: anche se ogni persona, ogni automobile e ogni fabbrica emettessero improvvisamente zero emissioni, la terra sarebbe ancora diretta – e a tutta velocità – verso il disastro totale per una ragione principale: l’esercito americano”.

Prof. Barry Sanders

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