Beppe Grillo nel 2007
WiMax e il diritto alla conoscenza
Tra poco lo Stato assegnerà le frequenze WiMax. E’ il punto di non ritorno per il libero accesso alla conoscenza. Dopo non si potrà più tornare indietro. Il WiMax è una tecnologia che permette di trasmettere e ricevere segnali senza fili a distanze di decine di chilometri. Elimina l’ultimo miglio e il pedaggio di Telecom Italia. Le comunità locali potranno rendersi indipendenti e collegarsi a Internet…
Ogni cittadino dovrebbe avere per nascita il diritto di accesso alla conoscenza.
E via la petizione…
Il Wifi-WIMAX è entrato in case e piazze e arriva anche nella casa remota di chi sta scrivendo. Nessuno vuole tornare al passato, ma non è tutto bello come sembra e certi aspetti di questa meraviglia richiedono approfondimenti (qualcuno lo ha capito, vedi la sindaca M5S di Torino).
La pagina dell’Istituto Superiore di Sanità, che informa con una posizione ufficiale su ‘Salute e campi elettromagnetici’, tranquillizza: non esistono prove sicure che le radiazioni WiFi siano dannose. E c’era chi in posizione rilevante aveva da dire altro trovandosi presto in prepensionamento. (VEDI ELETTROSMOG: SI CHIUDE LA BOCCA AI CRITICI E SI FA IL GIOCO DELLE COMPAGNIE e Elettrosmog, ‘il governo mette a rischio i cittadini’. Parola al fisico)
Quindi alla domanda se fa male o non fa male il WiFi, la risposta diffusa anche via mainstream bolla le preoccupazioni come bufale.
Beppe Grillo, fondatore del Movimento 5 Stelle, ha visto nella rete e tecnologie connesse la grande promessa. Il successo iniziale del Movimento si è basato in parte anche sulla campagna WIMAX-WIFI-RETE per tutti.
Il WIFI e la rete per tutto e tutti e significa uno shifting colossale, crea il mondo dell’internet delle cose, crea un ‘MONDO SMART’ .
PER RICORDARE: BEPPE GRILLO NEL 1997
L’intervista che segue (dopo una breve presentazione) invita il Movimento 5 Stelle (e non solo) a RI-aprire una discussione su questo argomento.
Evgeny Morozov: “Internet non salverà il mondo”
Autore: Annamaria Trevale
Già da diversi anni Evgeny Morozov, giornalista bielorusso trapiantato in America, conduce una battaglia personale contro quella visione troppo ottimistica della Rete che ne prevede illimitate possibilità di sviluppo futuro, polemizzando ripetutamente con alcuni dei principali esponenti della corrente di pensiero definita come cyber-ottimismo.
A Milano per presentare il suo ultimo libro, intitolato significativamente Internet non salverà il mondo, appena pubblicato da Mondadori nella traduzione di Gianni Pannofino, Morozov è stato protagonista di un incontro con alcuni blogger, organizzato dalla casa editrice presso la Maison Moschino, durante il quale ha espresso con passione le proprie tesi sulle implicazioni di una diffusione sempre maggiore della tecnologia informatica in tutti i settori della nostra vita.
Già nel suo libro precedente, L’ingenuità della rete – il lato oscuro della libertà di Internet (Codice Edizioni, 2011), Morozov si preoccupava, ad esempio, di ridimensionare il ruolo ricoperto da Internet, attraverso i social media, nel corso dei rivolgimenti politici che hanno costituito la cosiddetta “primavera araba”: se possono facilitare l’avvio di una rivoluzione, Facebook e Twitter si rivelano però inadeguati come supporto alla costruzione dei progetti politici necessari a costruire nuovi governi. In pratica, se può essere facile riempire le piazze e spodestare un dittatore chiamando a raccolta la popolazione attraverso un social network, non è poi altrettanto semplice gestire nello stesso modo le fasi successive di una rivoluzione e la formazione di un nuovo governo.
Proseguendo nella sua messa in discussione del potenziale di emancipazione insito nella tecnologia informatica, Morozov affronta in Internet non salverà il mondo svariati aspetti dell’utilizzo di Internet nella vita quotidiana, mettendo in risalto quei lati negativi che una visione generalmente ottimista, per non dire trionfalistica, delle illimitate potenzialità del Web, tende a sottovalutare, se non a occultare del tutto.
Morozov non si dichiara per nulla contrario all’uso del Web, ma intende metterne in evidenza i limiti strutturali, e soprattutto rendere più consapevoli gli utenti delle grandi società tecnologiche, come Amazon o Google, di tutte le tecniche di manipolazione messe in atto da queste per guidare il comportamento degli individui in determinati settori.
Fino a che punto ci rendiamo conto di come il nostro comportamento in rete sia costantemente monitorato? Quelli che dovrebbero essere soltanto degli intermediari, ad esempio Amazon, che in teoria dovrebbe solo venderci prodotti non suoi, si sono da tempo trasformati in società che raccolgono sistematicamente tutti i dati degli utenti, utilizzandoli con metodo per gestire e influenzare le loro scelte future.
L’editoria online, tanto per fare un esempio alla portata di tutti, si sta trasformando in un settore quasi del tutto privo di rischi: in base alle scelte degli acquirenti, è in corso la pubblicazione a getto continuo di libri che ricalcano spesso pedissequamente i precedenti che hanno venduto di più, col risultato di produrre opere create su misura per i presunti gusti dei lettori.
Usando libri di successo per produrne altri, ci si garantisce buone vendite, ma si cancella del tutto quello che Morozov definisce il rischio culturale dell’editore che sceglie di pubblicare qualcosa di nuovo, che si differenzi dal gusto corrente. L’innovazione, che tradizionalmente è considerata tipica della rete, in questo caso viene a mancare, perché all’assunzione della responsabilità di pubblicare opere originali e controcorrente si preferisce il guadagno sicuro.
Del resto, chiunque abbia acquistato qualcosa in rete, ha sperimentato come Amazon ci proponga in seguito possibili acquisti basati sulla nostra prima scelta: se io compro un romanzo giallo, ogni volta che tornerò sul sito riceverò proposte riguardanti i libri più venduti dello stesso genere. Il successo di un libro tenderà quindi a basarsi più sull’applicazione dell’algoritmo di Amazon che sul suo effettivo valore culturale, perché saranno molte le persone che si convinceranno ad acquistarlo seguendo il suggerimento del sito.
L’utente medio del Web lo considera un fantastico mondo da cui ricevere una quantità di informazioni, e di altre possibilità, a titolo del tutto gratuito non si rende conto che questa gratuità è pagata, in definitiva, dall’uso occulto dei suoi dati personali, che alimentano il cospicuo settore delle ricerche di mercato, volte a individuare sempre meglio i gusti e le necessità, vere o presunte, dei potenziali consumatori.
Per Morozov, l’aspetto negativo del dilagare della tecnologia riguarda anche la sua pretesa di sostituirsi alla politica e all’economia. Un capitolo molto importante del suo libro riguarda l’ascesa in Germania del Partito dei Pirati, basato sulla ricerca di una trasparenza assoluta del Web, e su un suo utilizzo sistematico per controllare l’attività politica e per esprimere direttamente consenso e/o dissenso da parte dei cittadini in merito alle questioni discusse in parlamento. In realtà, sostiene Morozov, i Pirati sono un movimento del tutto apolitico, perché non comprendono che la politica non si può fare solo a colpi di sì e no, ma esige discussioni, riflessioni e mediazioni tra le parti: la loro logica tecnologica non coincide con quella esistente, e il loro concetto di “trasparenza” non sempre si rivela corretto, dal momento che più volte hanno spacciato per pareri espressi dal “popolo del Web”, identificato senza mezzi termini con la cittadinanza tutta, l’opinione di poche decine di utenti in un territorio con diversi milioni di abitanti.
La tecnologia da sola non può risolvere problemi che dovrebbero essere di pertinenza di politici ed economisti, anche perché l’innovazione implicita in essa non sempre corrisponde a effettivi miglioramenti qualitativi della vita. Secondo i cyber-ottimisti, però, il mondo è ormai diviso tra chi è perennemente collegato in rete e chi non lo è, cosa che in futuro sarà sempre meno possibile fare: già ora, negli Stati Uniti, chi non ha un profilo Facebook viene giudicato negativamente dalle aziende nel momento in cui cerca lavoro, in quanto si è diffusa la convinzione che se non lo possiedi sei senz’altro una persona che ha qualcosa da nascondere.
Facebook ha quindi assunto un ruolo del tutto sproporzionato al suo essere una semplice combinazione di sistemi, così come Google si basa su un uso sistematico degli algoritmi in ogni campo, ma siamo sicuri che lo spodestamento in atto del pensiero umano a opera dei numeri sia un vantaggio?
Internet non salverà il mondo è un libro piuttosto impegnativo, denso com’è di rimandi al pensiero di altri autori, con cui di volta in volta Morozov dissente, polemizza o si mostra d’accordo, ma se ne consiglia la lettura a tutti i cyber-ottimisti, perché invita a riflettere su moltissimi aspetti della nostra vita online di cui troppo spesso non siamo per nulla consapevoli, e può senz’altro aiutarci a gestirlo in modo più responsabile. FONTE
Perché Internet non salverà il mondo
Intervista con Evgeny Morozov, il filosofo avversario della Silicon Valley
di Quit
«Quando il saggio indica la luna, lo stolto si distrae e si fa convincere da Riotta a comprare i Google Glass». Forse il detto non recitava esattamente così ma il concetto è abbastanza chiaro: ogni tanto capita nella vita di incontrare qualcuno che ha delle cose intelligenti da dire e, al contrario dei filosofi francesi degli anni ’70, le dice anche bene.
In casi come questo vale la pena di cercare di capire esattamente da che parte questo tizio stia puntando il ditone e non perdere tempo dietro allo stuolo di commentatori tecnologici ripieni di ottimismo monodirezionale. Evgeny Morozov, che prima di dimagrire in maniera quasi spaventosa aveva anche il grassottello physique du rôle del saggio, è esattamente uno di quei personaggi che vale la pena stare a sentire con attenzione, uno di cui la backlist di titoli va saccheggiata in un singolo giro in libreria.
Critico radicale, acuto, tagliente e impietoso, ha detto, meglio e più approfonditamente, quello che molti fra quelli che non hanno l’ansia di farsi invitare alla prossima conferenza stampa di Google già pensavano: non è mica detto che l’attuale sviluppo tecnologico debba essere univocamente considerato una cosa stupenda, anzi.
Una delle cose belle, però, è che non ve lo dice con il tono luddista irato del sessantenne che vi chiede quale razza di tasto fa partire il videoregistratore (il triangolo esprime moto, il quadrato stasi. Come hai fatto esattamente a sopravvivere fino a quest’età?), bensì scavando nelle conseguenze sociali, culturali ed economiche delle nuove tecnologie, indagandone il modo in cui cambiano le pratiche quotidiane, i rapporti di potere, mettendone in luce il forte substrato ideologico insito nelle scelte che ne indirizzano la ricerca e la produzione. Non si muove nel comodo alveo del discorso, ma lo mette in discussione in maniera radicale, talvolta irriverente. Non è sempre interamente condivisibile ma sempre sensato e ben argomentato.
Morozov, che ha all’attivo tre best seller, scrive per il New York Times, il New Yorker, Slate, New Republic, Frankfurter Allgemeine e ha scritto su Washington Post, Financial Times e Wall Street Journal, è nato in Bielorussia da una famiglia di minatori nel 1984. Una tipica storia italiana. Ah no.
I suoi articoli sul gotha dei giornali del pianeta sono l’esatta nemesi di quei pezzi tech arrendevoli ad ogni piano di dominio della Silicon Valley che di solito si concludono con assurde domande retoriche-bonarie-passive tipo “In un futuro non troppo lontano andremo quindi tutti sempre in giro con questo nuovo dispositivo digianale (magica unione di anale e digitale) prodotto da xxxyy infilato dove non batte il sole. Farà un po’ male all’inizio ma chissà quale eccitante rimedio la scienza svilupperà per le emorroidi. È il futuro, baby ”.
Oltre ai contenuti critici, Morozov possiede uno stile brillante, divertente e lucido fino all’eccesso, sfortunatamente non sempre percepibile nella versione italiana dei suoi pezzi perché per qualche motivo il Corsera, la testata che pubblica i suoi articoli nel nostro Paese, tende ad eliminare i passaggi divertenti, come si può vedere ad esempio confrontando questa colonna originaria a proposito del buon vecchio Andrew Smart su Slate con la traduzione in italiano.
Questo periodo fa ridere! Nein! Nein!
(ricostruzione totalmente arbitraria del reparto traduzioni di via Solferino)
Oltre agli articoli, Morozov ha scritto tre libri. Il primo è il best seller L’ingenuità della rete (The Net Delusion) dedicato in buona parte a demolire il mito di internet come agente di diffusione della democrazia, mostrando come invece il web semplifichi parecchio il lavoro repressivo dei regimi dittatoriali, la “militanza da Facebook” sia irrilevante nel mondo reale, anzi controproducente, e il ruolo di Twitter nelle rivoluzioni sia soprattutto una bolla mediatica costruita ad hoc. Il secondo è il pamphlet Contro Steve Jobs, in cui viene demolito il carattere profetico e visionario del guru della Apple mettendone in luce la sconfinata povertà di pensiero.
«Rolling Stone gli fece una domanda sul futuro della tecnologia (…) Jobs fece roteare gli occhi “Sai, preferirei parlare di musica. Queste grandi domande sono soltanto zzzzzzzzz” disse, mettendosi a russare. Ecco, appunto il filosofo del XXI secolo»
(Contro Steve Jobs, pag. 102)
I primi due titoli sono stati tradotti in Italia da Codice, il più recente To save everything click here invece è edito da Mondadori Strade Blu che ha scelto il titoloInternet non salverà il mondo, più retorico e meno ironico dell’originale. L’ultima fatica di Morozov è un lungo e accorato attacco al soluzionismo digitale e alla tendenza della Silicon Valley a creare soluzioni a problemi che non esistono, riempire la vita di misurazioni digitali, mercificandola e controllandola fino nei suoi angoli più reconditi in nome di una maggiore efficienza, di un senso di giustizia e di trasparenza assoluto e distopico.
Morozov descrive con sarcasmo, preoccupazione e grande capacità analitica anche gli esiti più inquietanti di questa tendenza: dalla polizia predittiva che non abita più solo in Minority Report ma attraverso l’utilizzo dei big data è realtà già presente in molte località degli Stati Uniti, alle tecnologie di riconoscimento facciale o biometrico, fino alla selezione all’ingresso dei locali o delle strutture pubbliche basato sull’accesso in tempo reale ai nostri dati condivisi sui social.
Il futuro di Morozov è claustrofobico, totalitario e in buona parte già presente. Al tempo stesso con una verve tipicamente americana (acquisita) non rinuncia a unapars construens, rifiutandosi di pensare che il web possa essere solo quello delle multinazionali ultra liberiste della Silicon Valley, e avanza dei propositi di disruption della disruption. Date tutte queste credenziali, quando ho saputo che era di passaggio a Milano sono corso ad intervistarlo.
Mentre lo aspetto in un elegante salottino tutto bianco della Maison Moschino, poco lontano dalla stazione di Porta Garibaldi, un’addetta stampa di Mondadori luma la mia copia originale di To save everything click here e sfogliandola scopre stupita i miei appunti a bordo pagina. Prima che mi chieda se sono davvero un giornalista, la mia copertura salti e io sia costretto a salvarmi spiegando che la mia prima domanda sarà «signor Morozov come mai è così dimagrito?», lo scrittore-editorialista-pensatore bielorusso fa il suo ingresso in sala con il suo rassicurante aspetto sano da persona che passa 23 ore al giorno a giocare a World of Warcraft e inizia l’intervista.
Una cosa che ho molto apprezzato di Internet non salverà il mondo è che complessivamente si tratta di una sorta di grande elogio dell’imperfezione contro i sogni di perfezione assoluta della Silicon Valley. In che modo il soluzionismo digitale minaccia quest’aspetto ineliminabile della condizione umana?
Credo che ci sia un’ideologia dietro i molti tentativi contemporanei di risolvere i problemi; in campi come l’educazione, la sanità, il crimine e in un numero crescente di ambiti aumenta la tendenza a non tollerare il rischio che si possa presentare un problema di qualsiasi tipo. Un esempio molto efficace di questa tendenza è la polizia predittiva che prova a usare dati raccolti per decenni in luoghi diversi, inserendoli dentro software in grado di produrre previsioni su dove accadranno i prossimi crimini. In questo modo si possono inviare sul luogo forze di polizia prima ancora che il reato accada e prevenirlo. Ci sono ovviamente dei vantaggi con un sistema del genere, nel caso specifico delle tecniche di polizia significa che non avrai più crimini, se lo applichi alla sanità, non dovrai più vedere un dottore. Ma se incominci a pensare il tuo ambiente secondo questa logica, smetterai di dare per scontati una larga serie di servizi che prima ritenevi necessari come ad esempio l’assistenza sanitaria, che diventerebbe necessaria solo per coloro che non praticano correttamente l’automisurazione, quindi in ultima analisi dei pigri, o di coloro che rispetto al sistemasbagliano. In una situazione di questo tipo essere dei bravi cittadini significa smettere di aspettarsi un welfare state, cambiano quindi le relazioni fra i cittadini e lo Stato. Si passa da una situazione in cui si viveva la propria vita e in caso di problemi si poteva contare sull’aiuto di un dottore, di un’istituzione pubblica in sostanza, a una dove devi gestire da solo gli strumenti di autocontrollo e non sbagliare. Non mi piace questo sistema, perché sembra introdurre la perfezione ma è un modello estremamente costoso non alla portata di tutti.
I sistemi che prevengono l’accadere di azioni “sbagliate” presentano anche un altro problema: se compiere il male è di fatto impossibile, è ancora possibile un discorso morale, e, cosa più importante ancora, cosa rimane della soggettività dell’individuo?
Stai pensando a quello che dice Giorgio Agamben a riguardo?
Nello specifico pensavo a Kant, ma è evidente che l’assenza di scelta fra male e bene risulti problematica nelle prospettive di numero molto ampio di pensatori.
Te lo chiedevo perché sei italiano e Giorgio Agamben la pensa esattamente così. Ad ogni modo hai ragione, sapere che non si compie un atto di devianza perché la stessa devianza è prevista ed eliminata prima che accada ha ovviamente delle conseguenze su come penserai alle proteste, alla disobbedienza, che sono concetti fondamentali per poter pensare alla democrazia e presuppongono implicitamente l’attività di infrangere la legge. La disobbedienza civile come concetto è sostanzialmente l’atto volontario di infrangere la legge, subirne le conseguenze e fare così un’affermazione politica, ma questo non può accadere se non puoi infrangere la legge perché il sistema ti esclude da uno spazio particolare nel momento in cui avverte, tramite una combinazione di sensori, algoritmi, droni, porte intelligenti, identificazioni biometriche, che c’è un’alta probabilità che stai per compiere un reato. Può ad esempio impedirti l’accesso stesso all’hotel dove ci troviamo in questo momento, se ritiene che potresti risultare pericoloso per il gruppo di persone sedute su questi divanetti. Questo chiaramente ha effetto sull’idea stessa di cittadinanza e anche il modo con cui il sistema politico interagisce con essa. Volendo vedere la disobbedienza civile da un punto di vista cibernetico, è come se il sistema aggiornasse i suoi parametri di funzionamento acquisendo stock di nuove pratiche che gli fanno ripensare le sue esigenze e quindi le sue leggi.
Il rischio in questa prospettiva è la cristallizzazione sociale e in un certo senso la fine della storia.
Sì, è la fine della storia nella misura in cui il sistema politico non ha più modi per ammettere nuovi fatti, perché pensa in maniera molto conservatrice ed hegeliana che abbiamo già raggiunto il sistema perfetto, ovvero crede nell’idea che l’attuale sistema politico ed economico sia il migliore pensabile. Per questo non c’è bisogno di costruire o mantenere canali di apprendimento attraverso i quali puoi scoprire che le cose che reputi illegali oggi potrebbero non esserlo in futuro. Pensiamo che fino a pochi decenni fa negli Stati Uniti non era legale per i neri andare nei ristoranti, e se avessero costruito dei sistemi predittivi attorno a quella legge oggi probabilmente sarebbe rimasta immutata, senza avere la possibilità di essere revisionata attraverso comportamenti devianti. Tutto questo è in effetti la fine della storia nel più appropriato senso hegeliano, è già esistita una corrente di hegeliani conservatori all’inizio del diciannovesimo secolo che contrariamente agli hegeliani progressisti riteneva che la monarchia assoluta fosse la più perfetta delle forme di governo. Oggi abbiamo molte posizioni simili che però vengono percepite come progressiste e innovative solo perché sono mediate tramite la tecnologia, si presentano come teorie della disruption ma in realtà sono altrettanto conservatrici.
Conosci molto bene l’ambiente della Silicon Valley e le persone che ci lavorano, credi che si pongano problemi di questo tipo rispetto alla loro attività?
No. Sarebbe come aspettarsi che i banchieri di Wall Street possiedano questo tipo di sensibilità. Conoscono gli aspetti tecnici, ma il modo in cui la loro attività ha anche conseguenze politiche, etiche, culturali e sociali non gli interessa. Non hanno bisogno di pensare a niente del genere perché vivono in un ambiente deregolato, non saranno mai chiamati a rispondere di qualsiasi cosa facciano, è il modo in cui oggi funziona il sistema, non hanno di questi problemi. Dopo tre anni si è scoperto che Google rubava le password dei wi-fi [ Google maps ndr] e la compagnia ha pagato una piccola multa senza nessuna altra ripercussione, gli è bastato dire «ci siamo sbagliati» e poi passare ad altro. È nel loro Dna. Se vedi come Facebook autorappresenta il proprio lavoro potresti usare lo slogan di Zuckerberg “move fast and break things”, questa è la sua morale, ottima per una nave rompighiaccio che attraversa l’Antartico, ma forse non è il massimo per le compagnie che hanno a che fare con i nostri dati più privati.
[nota per il Corsera: se citate l’intervista, mi raccomando levate questa battuta]
Credo che Washington abbia bisogno delle tecnologie di queste aziende per contrastare l’ascesa geopolitica di nazioni come Cina, Russia o India, mi chiedo però se il potere politico non sottovaluti l’elevata autonomia che il potere tecnologico sta acquisendo.
Credo che Washington sia molto a suo agio con la Silicon Valley per il semplice motivo che compie il lavoro che l’Nsa non è in grado di fare. Organizzano tutte le comunicazioni, l’Nsa non deve fare altro che arrivare e aprire le porte. La Silicon Valley è come una gigantesca libreria e l’Nsa come un cliente di questa libreria, deve solo entrare e prendere quello che gli serve. È il tipo di simbiosi fra Stato e aziende che in altri periodi storici ha caratterizzato il fascismo, è lo Stato delle corporation, solo che al contrario viene presentato come lo Stato dell’innovazione. Ma se smetti di guardarlo dal punto di vista dell’avanzamento tecnologico, che è univocamente utilizzato oggi, e lo guardi dal punto di vista del potere, le cose cambiano. Ogni forza politica ha abbandonato ogni altro valore rispetto all’innovazione tecnologica, quando si parla di tecnologia non si parla altro che di come massimizzare l’innovazione. Guarda ai primi ministri, cos’è successo alla giustizia, all’eguaglianza e a tutti questi valori anacronistici? Conta solo l’innovazione.
Quando dici «dobbiamo regolare la tecnologia» sono totalmente d’accordo con te, e al tempo stesso sono anche spaventato dal potenziale di controllo senza precedenti oggi nelle mani del potere grazie alla tecnica. Lo scandalo Nsa sta lì a dimostrarlo, stiamo parlando di una sorveglianza praticamente assoluta, globale, omnipervasiva. D’altro canto mi chiedo anche come sia possibile intervenire in senso limitativo sulla tecnologia, nel momento in cui dal suo possesso e dal suo aumento indefinito di efficacia deriva il potere e ogni potere desidera per sua natura sovrastare gli altri poteri. Posta in termini pratici: se una potenza smette di sorvegliare elettronicamente i suoi cittadini e i suoi obiettivi sensibili, i suoi nemici faranno altrettanto o useranno questa limitazione altrui a proprio vantaggio? Questo mi sembra il terribile ostacolo sulla strada della regolamentazione della tecnica, alla luce di ciò come è possibile agire in maniera regolativa?
Astraendosi dal concetto di Stato. Come tenere in piedi il sistema corrente basato sugli Stati nazione non è esattamente il mio progetto, anzi se devo essere onesto mi piacerebbe vedere questo modello implodere. Credo che sia sopravvissuto più a lungo di quanto sarebbe stato utile; se l’argomento è che dobbiamo sopportare la sorveglianza cibernetica perché serve alla competizione fra Stati allora il mio sforzo principale sarà verso la disruption del sistema stesso fra gli Stati. E come ottenere ciò? Attraverso tecnologie che creino uno spazio nuovo fra i contendenti, qualcosa di estraneo sia agli Stati che alle corporation, perché non mi fido di nessuno dei due dal momento che non c’è molta differenza, l’importanza che ha per loro il denaro li rende molto simili. Non puoi sperare di regolare queste compagnie perché queste compagnie controllano i regolatori, nel sistema attuale non c’è modo di riuscire a fare ciò. Potresti vincere su alcuni aspetti peculiari, una sorta di miracolo, in fondo tutti aspettiamo il messia, ma le speranze maggiori sono le strutture collettive non connesse agli Stati. Per esempio tutte le cose utopiche dette sui Bitcoin al momento sono la cosa migliore che abbiamo sul tavolo, non c’è nient’altro per opporci alle banche che, se astraiamo un po’, sono un problema ben più grosso della Silicon Valley.
Quindi proponi di ritornare allo spirito originario del web, quando ancora internet non era dominato dalle grandi corporation?
No, non sto chiedendo un Art&crafts movement, non ci metteremo a fare le tastiere a casa nostra, ma non significa che internet debba essere dominato necessariamente da grosse corporation che funzionano come monopoli. Contesto l’assunto che internet debba essere necessariamente un ambiente dominato da grandi aziende private che hanno il monopolio di hardware, software e data perché tutto sommato questo assetto è utile in funzione anticinese.
Lo contesto anche io, ma non mi è chiara una possibile via di uscita da questa situazione.
Il primo punto è prendere coscienza del problema, scrivendo questo libro mi sono reso conto che il problema è soprattutto discorsivo, dobbiamo sviluppare modi più efficaci di discutere di questi temi, recuperare una sorta di “etica del discorso”, non utilizzare semplificazioni idiote, ribellarsi alla reificazione del discorso, puoi rivalutare il tardo pensiero di Adorno, usare la dialettica negativa, puoi provare qualsiasi strumento, ma forse non devi usare più la parola “internet” perché a questo punto non sono sicuro che si possa andare lontani con questo approccio. Questo considerato che l’analisi attuale non fa nulla per colpire i processi economici sottostanti che decidono i termini stessi del discorso, ed è necessario colpire la logica economica che è legata alle infrastrutture, alle risorse, alle piattaforme. Dobbiamo cercare di produrre quelle infrastrutture che permettano una reazione efficace non solo al dominio delle aziende della Silicon Valley ma anche a quello delle politiche di austerità, alle banche e a questo tipo d’istituzioni. Uno dei motivi per cui il grande movimento spagnolo contro l’austerity non si è sviluppato come avrebbe potuto è che non aveva modo di comunicare attraverso Facebook e Whatsapp e sapevano che su questi canali erano controllabili dalla polizia. Dobbiamo sviluppare canali che siano ugualmente efficienti ma non così vulnerabili.
Mi sembra un obiettivo ambizioso. Probabilmente hai letto il lungo reportage di Patrick Radden Keefe sul New Yorker riguardo alla cattura di El Chapo, il grande narcos messicano. Una lunga parte è dedicata a ricostruire le infinite precauzioni che il boss prendeva per sfuggire alla sorveglianza elettronica e che si sono infine rivelate perfettamente inutili. L’unico motivo per cui c’è voluto molto tempo a catturarlo è che il boss aveva il controllo politico-militare assoluto del territorio dove si nascondeva, ma appena è uscito dall’area di cui era non solo un criminale ma anche il potere è stato tracciato digitalmente e arrestato, questo nonostante le contromisure elettroniche, la sua efferata spietatezza e l’enorme quantità di denaro a sua disposizione. Non proprio risorse a portata di un manifestante anti-austerity disoccupato.
Sì, ma non mi aspetto che la polizia locale di una cittadina della Spagna sia così sofisticata come l’NSA, sto solo dicendo che non dobbiamo necessariamente accettare il set-up tecnologico che ci viene fornito come una conseguenza naturaledel mezzo internet e una volta fatto questo puoi incominciare a chiederti di cosa hai veramente bisogno. Non sono così sicuro che la Commissione europea non farebbe molto meglio a finanziare progetti centralizzati per la realizzazione di strumenti di comunicazione piuttosto che continuare a finanziare le grandi telecom nazionali perché svolgano lo stesso compito. Questo però è quello che sta succedendo.
Sei probabilmente il più famoso oppositore al tecno-utopismo dominante, il fatto che ci sia un numero di commentatori tecno-entusiasti tale da creare una sorta d’inscalfibile egemonia culturale secondo te da cosa deriva? Dalla percezione della tecnologia come una sorta di magia bianca? O dal fatto molto pragmatico che la Silicon Valley muove quantità enormi di denaro?
Prima di tutto credo sia un equivoco ritenermi un pensatore contro la tecnologia. Mi occupo di tecnologia come qualcosa che conduce a qualcosa di più ampio ovvero riflessioni che riguardano la politica o l’economia o altri temi del genere. L’occuparsi della questione della tecnologia fa parte per me di un più ampio set di problemi, ma sì, devo essere onesto, è probabilmente proprio la mia trattazione della tecnologia il motivo per cui sono pubblicato sui giornali, per non parlare dei libri. Questo meccanismo fa sì che attraverso la questione della tecnica io possa veicolare un certo tipo di idee politiche ed economiche su testate che altrimenti non le accetterebbero mai perché hanno agende molto distanti dalla mia su questi temi, sulla questione della tecnologia però è concessa un po’ di ambiguità e in effetti sono percepito primariamente come un critico della tecnologia.
In realtà però esistono molti altri commentatori contro la Silicon Valley, persone come Adrew Keen e Jaron Lanier, anche se la loro critica ha a che fare con rilievi di tipo politico solo fino a un certo punto. La vera domanda quindi sarebbe: «Come continui a fare una critica che sembri una critica della tecnica mentre in realtà cerchi di colpire la base di un discorso che si possa strutturare in termini di pro-tecnologia e contro-tecnologia?». Quindi se io avessi successo nelle mie intenzioni programmatiche il campo delle opinioni “contro la tecnologia” a cui sono solitamente associato dovrebbe semplicemente diventare irrilevante. Questo perché non credo che il discorso sulla tecnologia possa funzionare da base per discutere dei problemi che m’interessano. Il tema “tecnologia” non contiene in sé alcun valore normativo su come dovremmo organizzare la nostra società, ma porta inevitabilmente a cadere in un discorso su “autenticità” o “inautenticità” della vita mediata tecnologicamente. Per me in questo momento la sfida è cercare di produrre contributi interessanti mentre mi rendo perfettamente conto che il campo del pensiero “antitecnologico”, che mi ha permesso di essere ascoltato, necessita esso stesso di essere distrutto o reso irrilevante, esattamente come mi auguro che lo stesso accada al campo delle opinioni pro-tecnologia.
Questo perché non credo che il discorso sulla tecnologia in sé possa avere qualcosa da dire sui problemi che affrontiamo nella nostra epoca, non offre una via di uscita, è necessario immergersi nella politica e nell’economia. Oggi abbiamo un buon dibattito politico, interessanti opinioni anche nel campo dell’economia, ma il dibattito sulla tecnologia sembra esistere nel vuoto, non è connesso in alcun modo alla trattazione del neoliberismo o alla globalizzazione. Bisogna portare via il discorso dalla Silicon Valley e dai blog tecnologici che funzionano come ventriloqui per i venture capitalist, l’unica cosa che fanno è occuparsi di chi ha fondato cosa. No. Riportiamo il dibattito su un altro campo, discutiamo di Google, di come e perché la sua quotazione non corrisponde ad alcun assetto tangibile nella sua disponibilità, un dibattito che nessuno nella Silicon Valley vuole fare. Discutiamo di cose come un bidone smart che analizza i tuoi rifiuti non come forma di alienazione dalla tua natura umana bensì come appendice di nuove forme di governo e governamentalità e di tentativi di generare mercati da qualsiasi cosa, inclusi i tuoi rifiuti, il che condurrebbe inevitabilmente a una critica più ampia della mercificazione della vita quotidiana. La buona notizia comunque è che con un articolo di tecnologia puoi inserire i contenuti più radicali all’interno dei giornali più conservatori e uscirne impunito.
Uno dei possibili esiti d’internet applicato alla politica è l’ideologia che sostiene che la rete sia in grado di produrre la verità e che questa verità sia assoluta. Questo principio è ciò intorno a cui in Italia, ruota, almeno a parole, buona parte della retorica di Beppe Grillo. Ti avviso che è un argomento a cui sono particolarmente sensibile perché Grillo, con la sua tipica sensibilità verso le opinioni altrui, in seguito a mio articolo mi ha aggiunto alla sua lista di proscrizione di giornalisti sgraditi a lui e al suo movimento.
Non sono in grado di commentare questa situazione particolare, ma di certo nel modo attuale in cui l’internet attuale presenta le cose c’è uno sforzo di fare apparire alcune costellazione di fatti come veri ed espressione delle molteplici voci delle persone. Google ad esempio presenta i suoi risultati di ricerca come se non fossero il frutto del modo in cui l’azienda stessa decide di rappresentare e organizzare la conoscenza, e dal modello di business che decide di restituire e i risultati più rilevanti per te e non per me, basandosi sulle tue ricerche precedenti. Hai le aziende dei social media che ti dicono che l’unica cosa che fanno è rendere possibile la viralità, grossi brand dicono che i loro video sono diventati virali perché le persone hanno reagito positivamente, quando probabilmente loro stessi hanno ingaggiato venti aziende di Pr per manipolare il modo in cui queste informazioni si diffondono online. Alla fine ci convincono che queste informazioni si sono diffuse online non per via della manipolazione ma per una sorta di meccanismo naturale simile a quello del mercato, dove le voci e le opinioni più interessanti ricevono maggiori attenzioni, c’è una promessa di meritocrazia intellettuale e l’idea che le cose cattive spariranno.
Secondo questa prospettiva i gattini che suonano il piano sono quindi l’apice intellettuale della razza umana.
Sì, e credo che ci sia bisogno di indagare queste dinamiche perché in effetti proprio quello che accade molto spesso, l’eguaglianza di partenza e la meritocrazia che spesso si associano a queste piattaforme, di fatto non esiste, i risultati che sono spacciati come frutto della viralità democratica provengono da altro ma sono trattati come se rappresentassero la voce delle persone. È lo stesso modo con cui la politica ha funzionato molto a lungo, avendo a che fare con i sondaggi di opinione, le ricerche di marketing, tutte le fonti secondari delle quali puoi parlare come se rappresentassero della conoscenza oggettiva, utilizzandole per legittimare certe agende politiche, con la differenza che ora puoi utilizzare l’opinione media su Twitter invece che commissionare a un tuo amico uno studio che rappresenti l’opinione pubblica secondo i tuoi bisogni. Il modo in cui movimenti sociali manipolano questa rappresentazione varia, così come variano i gradi di manipolazione che mettono in campo, così come varia fino a che punto è influente l’input popolare e fino a che punto è il leader a decidere tutto. Non vedo così tanta contraddizione rispetto al formato “partito politico” nel modello dei 5 stelle, c’è una persona che decide e le altre che forniscono feedback attraverso la piattaforma di Casaleggio.
Non c’è nessuna piattaforma di liquid feedback nei 5 stelle, è stata sempre promessa ma mai realizzata.
Ma esiste una componente online del processo di decisione.
VIDEO https://www.youtube.com/watch?v=CZtE05T5p6k
In genere si tratta di un mero avvallo delle decisioni prese dal leader del partito.
Ok, questo può sembrare paradossale ma non lo è. È questo il modo in cui i partiti funzionano, c’è chi fornisce le informazione e chi decide. Il mio punto è: questo è il modo in cui funzionano i partiti tradizionali e il MoVimento 5 stelle è un partito tradizionale, solo che invece che ritrovarsi solo in piazza si ritrova in rete, non credo che un partito politico possa funzionare in altri modi. I Piraten in Germania si sono divisi in assemblee decentralizzate fino a diventare politicamente irrilevanti.
Credo però che ci siano gradi intermedi di democrazia all’interno di un partito, nel MoVimento 5 stelle ad esempio non esiste alcuna possibilità che una minoranza diventi maggioranza, il capo è il proprietario del logo, compie epurazioni, il risultato è l’ennesimo partito personale, solo travestito da movimento di democrazia radicale, anche presso i suoi militanti.
Non si può nemmeno assumere che tutti i feedback vengano presi in considerazione. Se così fosse il partito non avrebbe una gerarchia e non sarebbe un partito, ci allontaneremmo dal concetto stesso di rappresentatività se non ci fosse un meccanismo di selezione delle istanze.
Il problema a questo livello è che il MoVimento 5 stelle si presenta come l’esatto contrario, ovvero come strumento di ascolto e deliberazione collettiva.
Questa è infatti la domanda, ovvero se i militanti si rendono conto di fare parte di un partito nel senso più classico del termine. Perché in realtà fanno tutto quello che serve per funzionare come un partito politico, sono politicamente scaltri.
Cosa pensi della sentenza europea che ha imposto a Google la rimozione di alcuni link per garantire il diritto all’oblio di un cittadino spagnolo? Credi che vada nella giusta direzione?
Va nella giusta direzione nel senso di problematizzare alcune cose di cui Google non vuole si discuta. Contro chiunque dica qualcosa sul loro modo di appropriarsi della conoscenza e organizzarla secondo i loro schemi viene agitato lo spettro di: censura, fine dell’illuminismo, della modernità, … — riempi il vuoto a piacere. Questa è la reazione standard di Google ogni volta che si trovano di fronte a qualcosa che rende più difficile per loro fare quello che vogliono della conoscenza. Credo che tutto questo sia un non-sense. Qualsiasi altra azienda avesse un atteggiamento del genere riceverebbe in cambio solo risate di scherno. Se una banca chiedesse di conoscere ogni aspetto della nostra vita per poterci concedere un prestito non lo accetteremmo, bisogna mettere dei limiti. Google invece seguendo il motto di Facebook si è mossa molto in fretta e ha rotto cose e adesso sostiene che si è andati talmente avanti che non si può più tornare indietro. E ancora una volta questo non è fattualmente vero. Basta vedere ad esempio come Google tratta alcuni dei risultati protetti da copyright. Se siete i proprietari dei diritti di un film o di un libro potete fare richiesta di rimozione e il link sarà eliminato e al suo posto apparirà un disclaimer di Google. Ma se questo funziona per le compagnie perché non deve funzionare per gli esseri umani? Può darsi che il motivo sia stato che a Google siano stati stupidi a sufficienza da pensare di portare così a casa un buon accordo con i proprietari dei contenuti di Hollywood, senza realizzare che così stavano aprendo le porte ai tribunali. Al momento questo argomento del precedente non è stato usato dai giudici ma dovrebbe, Google sostiene che la rimozione dei link non è tecnologicamente possibile ma in realtà è già stato fatto.
L’intervista a questo punto sarebbe finita ma Morozov vuole ancora sapere una cosa:
Toglimi una curiosità: perché Grillo ti ha messo sulla lista nera?
Ho scritto un articolo dove dicevo che non è un leader democratico.
E lui ti ha messo su una lista.
Sì.
Una cosa molto democratica da fare.
Già.
Parliamo ancora un po’, mi faccio autografare il libro e quando scopro che questo diavolo bielorusso dalle mille risorse legge anche un po’ d’italiano gli regalo una copia del mio. Lui traduce la prima riga della quarta e mi chiede «quindi nessuno ti ha mai visto?»
«No»
«Adesso lo metto su Twitter» dice con lo stesso sorrisetto sarcastico che immagino abbia quando scrive le sue stilettate per i libri e per i giornali. Ironia da giovane nerdusata contro le multinazionali del web, il che genera un’ironia di secondo livello su tutta la sua figura e il suo ruolo di portavoce del dissenso contro la Silicon Valley. Poi mi stringe la mano e si infila in ascensore, ha un’ora di pausa prima della prossima intervista. Non riesco a non pensare che potrebbe usarla per stendere le linee guida di un pezzo per il New York Times o per giocare a Candy Crush Saga riflettendo sulle sue implicazioni in una prospettiva strutturalista, o magari entrambe le cose assieme.
Non sarebbe la prima volta.
FONTE
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