George Weller fu il primo corrispondente straniero a raggiungere Nagasaki, dopo il bombardamento atomico della città da parte degli U.S.A. Gli occupanti statunitensi, dopo aver sganciato la bomba, soprannominata Fat Man, avevano dichiarato la città off limits per i giornalisti. Weller riuscì ad evitare i controlli dei posti di blocco militari fingendosi un ufficiale dell’esercito. Sulla strada del ritorno, però, il suo rapporto di 75 pagine e più di 20 foto furono censurati dall’esercito statunitense. Una copia del rapporto è stata scoperta dal figlio di Weller poco dopo la morte del padre, a Roma. Weller vinse il Premio Pulitzer nel 1943 come corrispondente di guerra.
Articolo del 2005: Nagasaki, una voce dal silenzio
Ecco i reportage censurati dagli Usa
WASHINGTON – Sessant’anni di lacrime amare e di censure militari sono passati da quando non c’erano che topi negli ospedali e spettri vaganti “senza capelli” e bambini dalle “labbra nere” destinati a morire presto consumati dalle radiazioni, “nel fetore dei cadaveri” dei loro genitori. Sei decenni esatti perché finalmente dal silenzio della censura americana e dalla vanità del maresciallo MacArthur, che le aveva fatte secretare per non sminuire il proprio ruolo trionfale, uscissero le parole del primo uomo non giapponese, del primo giornalista entrato a Nagasaki a vedere l’impronta lasciata da “Fat Man”, dal Ciccione, la seconda atomica sganciata il 9 agosto del 1945.
Era trascorso meno di un mese dall’esplosione della bomba, in quei primi giorni del settembre ’45 quando George Weller, inviato di guerra per il Chicago Daily News entrò senza autorizzazione tra le rovine di Nagasaki. Nello stile freddo, scolorito, cronistico, doverosamente patriottico del giornalismo del tempo inviò quattro reportage al suo giornale, che Douglas MacArhur, divenuto governatore di quel che restava del Giappone, fece appena in tempo a intercettare e stampigliare con il timbro classified, segreto, e nascondere negli archivi.
Per sessant’anni, fino a oggi quando il figlio di Weller, Anthony, ha ritrovato le copie in carta carbone di quei pezzi nel appartamento del padre a Roma e il Mainichi Shimbun di Tokyo le ha stampate, le osservazioni del “testimone zero”, del primo americano a Nagasaki, erano rimaste sconosciute.
Neppure la prima squadra di militari, medici e scienziati americani inviati da Washington aveva ancora messo piede in quella città, temendo giustamente le radiazioni. Weller cammina con l’ingenuità coraggiosa di chi, come tutti, non aveva mai avuto esperienze di un’arma simile dunque precedenti ai quali allacciarsi.
Si meraviglia che la radiazioni di cui aveva sentito parlare, non gli brucino gli occhi e la pelle, che il tanfo di cadaveri decomposti sotto il sole estivo “gli dia conati di vomito”, ma non provochi sintomi di “debilitazione”. La Bomba, osserva nel primo dei suoi dispacci, “è sicuramente un’arma formidabile, ma non particolare”, anche se la sua potenza distruttrice è inaudita.
Entra in ospedale, nei quindici edifici del Nagasaki Hospital contorti ma ancora in piedi perché costruiti di cemento armato e lontani dal “Ground zero”, dal punto della deflagrazione. Passa un’ora in quegli scheletri di palazzi e “non incontro nessuno vivo”. “Soltanto topi vivono tra le rovine”. E soltanto ricordi dentro il collegio di una missione americana, la American-Japanese Christian Mission, ridotta in spezzoni, come “schiacciata”, appiattita è una fabbrica di munizione della Mitsubishi dove lavoravano 1.016 prigionieri di guerra Alleati, americani, inglesi, australiani, un terzo dei quali moriranno per le ustioni radioattive, vittime del “fuoco amico”.
È soltanto continuando a camminare nei gironi di Nagasaki che Weller, destinato a morire molti anni più tardi, nel 2002 a San Felice del Circeo, in Italia, comincia a dimostrare nei suoi servizi il sentimento di avere visto qualcosa di più orrendo che un altro carnaio di guerra, il sentimento di uno sguardo sulla fine del mondo che quelle due armi hanno reso per la prima volta tangibile.
La prudenza patriottica delle prime righe si attenua, come si attenua l’ammirazione orgogliosa per la “precisione dei bombardieri”. “Si può immaginare e calcolare che cosa la forza dell’atomo liberato possa fare a palazzi di cemento e acciaio, ma per capire che cosa esso possa fare alla carne umana si deve trovare un ospedale funzionante”. Bambini ovunque, tutti stoicamente in silenzio, mentre osservano brandelli di pelle e ciuffi di capelli cadere. Adulti semicarbonizzati che mugolano nella loro agonia, tra medici che non possono fare altro che guardarli e tamponarli, perché nessuno di loro conosceva sintomi, né possibili terapie, di quella che chiamarono il “Male X”, la malattia sconosciuta.
“Lo scriverà? Scriverà quello che vede?”, lo imploravano i funzionari giapponesi, per chiedergli di testimoniare la disumanità di quello che il nemico aveva inflitto, dimenticando in quel momento ciò che i loro soldati avevano inflitto al nemico in tre anni e mezzo di guerra totale. E Weller è straziato, diviso, tra la necessità di raccontare quello che vede e di non tradire la propria bandiera.
Guarda una donna che due settimane dopo le ore 11 e 02 del 9 agosto era arrivata all’ospedale per dare una mano come infermiera, apparentemente sana e illesa, fino a quando improvvisamente le labbra si erano annerite, piaghe erano comparse ovunque e ora giace su un “tatami, su un tappetino di foglie di riso, morente, uccisa dal “Male X””. Ne muoiono così dieci al giorno, senza ragioni che i medici possano capire o curare, aspettando che “arrivino gli Americani” con la cura miracolosa. Se hanno inventato quel veleno, sicuramente avranno anche messo a punto un antidoto, dice la voce popolare, con vana logica.
Deve arrivare uno specialista giapponese, un vecchio radiologo dalla città di Fukuoka, il dottor Yosisada Nakashima, per spiegare che quella gente sopravvissuta allo scoppio, alle ustioni, ai crolli, sta morendo per radiazioni gamma, come i primi manipolatori di Raggi X, e per loro non ci sono cure. E molti di loro continueranno a morire per anni e decenni, consumati dalle leucemie, dai tumori scatenati dai raggi.
Quando la censura militare intercetta gli articoli di Weller e li porta al Comandante Supremo e Governatore del Giappone, Douglas MacArthur, il generalissimo, colui che neppure dieci anni dopo sarà licenziato in tronco dal presidente Truman quando proporrà di sganciare altre bombe A sulla Corea del Nord e la Cina comunista, ordina lo stop.
Troppo orrenda è l’impronta lasciata dal “Ciccione” al plutonio e troppo decisivo è stato il suo effetto nel costringere l’imperatore Showa, allora chiamato Hiro Hito, e i militari di Tokyo alla resa senza condizioni perché il “Nuovo Cesare del Pacifico”, come lo chiamò lo storico William Manchester, possa accettare di dividere con quegli ordigni la gloria della vittoria.
Gli articoli di Weller scompaiono nelle casseforti degli archivi militari, ma le copie riemergono dalle carte del vecchio, onesto e coraggioso reporter Premio Pulitzer, che scelse di finire la propria vita in Italia, per raccontarci, con una voce che neppure 60 anni hanno attenuato, il primo sguardo sulla fine del mondo.
Duecentocinquanta mila persone morirono a Hiroshima.
Centosettantamila a Nakagaski. Per una sola bomba ciascuna.
20 giugno 2005 dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI
FONTE http://www.repubblica.it/2005/f/sezioni/esteri/nagasaki/nagasaki/nagasaki.html
Wilfred Burchett e l’ “atomic plague”
Fu lui con un reportage per l’inglese Manchester Guardian ( il Guardian di oggi) a raccontare quello che era successo ad Hiroshima. Wilfred Burchett arrivò nella città distrutta otto giorni dopo l’esplosione. Scrisse un pezzo intitolato “atomic plague”, peste atomica. Capì l’indispensabile. E sfuggì alla ferrea censura del capo americano, il generale Douglas MacArthur .
«A Hiroshima – raccontava Burchett – poco meno di un mese dopo lo scoppio della prima bomba atomica che distrusse la città e fece tremare il mondo, gente non toccata direttamente dal cataclisma sta morendo ancora, misteriosamente, orribilmente, per un male sconosciuto per il quale non trovo altro nome che quello di peste atomica. Hiroshima non assomiglia a una città bombardata. Fa pensare a una città sulla quale sia passato un enorme rullo compressore che l’abbia stritolata, annientata per sempre (…) Negli ospedali ho scoperto persone che, pur non avendo ricevuto alcuna ferita al momento dell’esplosione, stavano tuttavia morendo per i suoi misteriosi effetti. Senza apparente ragione cominciano a sentirsi male, perdono l’appetito, gli cadono i capelli, sui loro corpi appaiono macchie bluastre. Quindi cominciano a sanguinare, dalle orecchie, dal naso e dalla bocca. All’inizio i medici attribuivano questi sintomi a una debolezza generale dell’organismo e somministravano ai pazienti della vitamina A per mezzo di iniezioni. L’effetto era orribile. La carne prendeva a marcire attorno al buco fatto dall’ago della siringa. Ogni volta tutto ciò è terminato con la morte della vittima. Questo è uno degli effetti a distanza della prima bomba atomica lanciata dall’uomo sull’uomo, e quello che ho visto mi è bastato (…)». Burchett terminava con un calcolo approssimativo delle perdite prodotte da un solo ordigno, secondo le incerte informazioni fornitegli dai Giapponesi sul posto: «(…) Sono stati contati 53.000 morti, 30.000 altre persone sono date come scomparse, il che significa senza dubbio possibile che sono anch’esse morte. Durante la giornata che ho trascorso a Hiroshima 100 persone sono morte per gli effetti della bomba: facevano parte dei 13.000 feriti gravi fatti dall’esplosione. Muoiono al ritmo di circa un centinaio al giorno e verosimilmente sono tutti condannati. Ce ne sono altri 40.000 che risultano feriti (…)» FONTE Daily Express 5 September 1945, entitled “The Atomic Plague“, …
La censura delle conseguenze (fall out – radiazioni) ha dato un facile via libera ai più di 2000 ‘test’ per ‘scopi pacifici’. Fu nascosto anche il Progetto Sunshine che indagava su ‘Quanti test nucleari riesce a sopportare l’umanità?‘
ESTRATTO DEL LIBRO DI GEORGE WELLER (pubblicato nel 2006)
Intervista con Antony Weller (figlio)
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DELIRIO ATOMICO
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