Three Mile Island, 40 anni fa crollò la fiducia nel nucleare

L’anniversario. 

I tanti guasti provocarono il mancato raffreddamento del nocciolo e, per la prima volta nella storia, la sua parziale fusione, o meltdown. Il mondo restò con il fiato sospeso 

Giorgio Ferrari, Angelo Baracca

Il 28 marzo di 40 anni fa, in Pennsylvania (Usa), a Three Mile Island (Tmi) avveniva il primo grande incidente nella storia dei reattori nucleari di potenza adibiti alla produzione di energia elettrica. Nella trattazione mediatica del pericolo derivante dal «nucleare civile», questo incidente è sempre stato considerato di minore importanza rispetto ai successivi Chernobyl e Fukushima, ma si tratta di una grossolana e indulgente interpretazione. Se è vero infatti che dal punto di vista dell’impatto su popolazione e territorio le conseguenze furono meno gravi (anche se un ferreo cover-up ostacolò tutte le informazioni), ciò fu dovuto esclusivamente alla «buona sorte» che salvò l’impianto (e la popolazione) da una serie incredibile di errori e negligenze commessi prima e durante l’incidente. I pochi (come noi) che all’epoca poterono accedere alle risultanze dell’inchiesta della Nrc (Nuclear Regulatory Commission) e a quelle della successiva Commissione Kemeny nominata dal presidente Carter, ne ebbero piena evidenza.

LA PROFONDA impressione sulla popolazione fu accentuata dall’uscita, appena una decina di giorni prima, del film Sindrome Cinese – interpretato da Jane Fonda, Jack Lemmon e Michael Douglas – che descriveva appunto un pericoloso incidente dentro una centrale nucleare. Le gravi negligenze che furono riscontrate riguardavano: violazione delle norme di sicurezza, cattiva manutenzione delle apparecchiature, errori di manovra degli operatori (dovuti ad impreparazione), progettazione inadeguata di alcune parti di impianto. La maggior parte dei malfunzionamenti avvennero entro i primi 15 minuti dall’inizio dell’incidente provocando il mancato raffreddamento del nocciolo e, per la prima volta nella storia, la sua parziale fusione, o meltdown (circa il 25%). Gli Stati Uniti (e non solo) rimasero per giorni col fiato sospeso quando l’accumulo di idrogeno nel contenitore (generato dalla reazione chimica ad alta temperatura delle guaine del combustibile con l’acqua) raggiunse una concentrazione tale da minacciare lo scoppio (come è avvenuto poi a Fukushima), che fortunosamente non ci fu, altrimenti le conseguenze sarebbero state disastrose.

L’INCIDENTE di Tmi rappresentò un punto di svolta. In primo luogo ridimensionò il mito dell’affidabilità della tecnologia nucleare, santificato nel 1975 dal Rapporto Rasmussen dove si affermava (temerariamente) che la probabilità di fusione di un nocciolo con conseguente rilascio in atmosfera era di una ogni milione di anni/reattore cioè anni di funzionamento cumulati di tutti i reattori. Ora se si considera che, a tutt’oggi, il funzionamento cumulato di tutti i reattori esistenti al mondo non arriva ai 20mila anni/reattore, si capisce che le stime precedenti sono frutto di estrapolazioni probabilistiche del tutto aleatorie, tant’è che la Nrc, prudentemente, prende a riferimento la probabilità di uno ogni diecimila anni/reattore.

UN ALTRO ASPETTO che fu messo in discussione dopo Tmi fu la cosiddetta «regola d’oro», cioè la teoria per cui si ipotizzava un solo evento iniziatore (guasto singolo) che poi ne generava altri fino a creare l’incidente catastrofico: a Tmi si appurò che furono ben sei gli eventi iniziatori e tutti diversi e indipendenti fra loro. Ciò indusse una revisione mondiale dei criteri e dei sistemi di salvaguardia in relazione a incidenti di questa portata, che si tradusse in massicci interventi sui reattori, specie quelli ad acqua in pressione come Tmi: basti pensare che il reattore di Trino Vercellese rimase fermo per circa tre anni proprio per effettuare modifiche di questo tipo. Interventi che aumentarono considerevolmente i costi dell’energia elettronucleare, che nel 1954 l’allora presidente dell’Atomic Energy Commission, Lewis Strauss, prevedeva sarebbe stata «troppo economica per essere misurata».

NONOSTANTE le rassicurazioni sull’assenza di danni alla popolazione (che comunque fu in gran parte evacuata nel raggio di 5 miglia), l’incidente ebbe una forte ripercussione sull’intero sistema nucleare, che vide crollare gli ordinativi; anzi negli Usa si rischiò una moratoria completa del nucleare quando al Congresso una proposta presentata in tal senso da una parte dei senatori democratici fu bocciata per un solo voto. Tra i sostenitori di questa proposta c’era anche John Kemeny, presidente della commissione d’inchiesta voluta dal presidente Carter (il quale era di formazione ingegnere nucleare).

DI FATTO, dopo l’incidente di Tmi negli Stati Uniti non sono stati fatti nuovi ordinativi di centrali nucleari per 30 anni. Nonostante tutto ciò la cultura filo nucleare continua a sottostimare l’intrinseca pericolosità di questa tecnologia, rivelatasi in tutta la sua potenza distruttiva a Chernobyl e Fukushima, consentendo oggi il prolungamento della vita operativa dei reattori elevandola dagli attuali 40 anni a 60 anni, come sta accadendo in Francia e negli Stati uniti.

FONTE https://ilmanifesto.it/three-mile-island-40-anni-fa-crollo-la-fiducia-nel-nucleare/

 

Otto anni fa Fukushima: la fine quando?

Angelo Baracca e Giorgio Ferrari

L’11 marzo del 2011 la costa orientale del Giappone fu sconvolta da un violento terremoto, classificato di grado 9 nell’epicentro: sulla costa fu di grado 7, ma provocò lo scram delle unità 1, 2 e 3 dell’impianto nucleare di Fukushima daiichi che erano in funzione. L’unità 1 (la più vecchia) registrò la completa fusione del nocciolo (meltdown) mentre nelle unità 2 e 3 si giunse ad una parziale fusione del nocciolo un’ora dopo, quando l’onda dello tsunami sommerse letteralmente i diesel di emergenza, inopinatamente collocati sotto il piano strada. Fu gravemente danneggiata anche la piscina del combustibile esausto dell’unità 4 (fuori servizio). Furono simultaneamente 4 incidenti in 4 diversi reattori fra i più gravi nella tormentata storia dei programmi nucleari civili!

A distanza di 8 anni dall’incidente non vi è nessuna prospettiva di soluzione. La rimozione del combustibile presente nelle piscine dei reattori danneggiati (un totale di 1393 elementi) è stata completata solo per l’unità 4, mentre per l’unità 3 dovrebbe iniziare entro quest’anno e solo nel 2023 per le unità 1 e 2. La rimozione dei noccioli fusi è stimata in 30-40 anni: forse ottimisticamente, dal momento che per ora si cerca di localizzare i detriti del combustibile all’interno dei reattori per mezzo di robot a controllo remoto, che però forniscono immagini limitate: fra l’altro, robot “a perdere” perché vengono irrimediabilmente danneggiati e resi inservibili dall’enorme irraggiamento, e quindi abbandonati all’interno del reattore.

I reattori danneggiati devono tuttora venire raffreddati pompando acqua al loro interno, anche se in quantità sensibilmente minore e comunque dell’ordine di 130 tonnellate al giorno. L’acqua che fuoriesce dai reattori passa da un impianto di decontaminazione poi viene immagazzinata in serbatoi posti all’interno della centrale: fino ad oggi sono state trattate più di un milione di tonnellate di acqua contaminata, raccolta in oltre 1000 serbatoi che aumentano al ritmo di uno a settimana. Circa mille tonnellate di acqua contaminata sono finite in mare dopo che un tifone colpì l’impianto. Per di più si stanno accumulando milioni di tonnellate di detriti e di terreno contaminato proveniente dall’esterno di cui non si sa che cosa fare e come trattare.

Dal 2017 il governo con un colpo di mano ha innalzato la soglia di esposizione per la popolazione da 1 mSv a 20 mSv: con questo sotterfugio sono stati reinsediati nelle loro case molti sfollati, che così hanno perduto ogni indennità per il reinserimento. Ciononostante ci sono ancora 55.000 persone che non possono tornare nei luoghi di origine, molte delle quali vivono in container prefabbricati.

Nel 2016 i costi diretti del disastro di Fukushima erano valutati in 15 miliardi di $ per la decontaminazione nei prossimi 20 anni, più oltre 60 miliardi di $ per i risarcimenti degli sfollati, ma 3 anni fa il governo ha elevato le proiezioni dei costi a 188 miliardi di $, ed è fortemente probabile che aumenteranno ulteriormente. Nel 2012 le stime dei danni economici totali variavano fra 250 e 500 miliardi di $. Ma che senso ha quantificare le sofferenze, le tragedie individuali, le esistenze sconvolte per sempre?

I costi della ricostruzione dovuta ai soli terremoto e tsunami sono valutati in 250 miliardi di $ e sono per lo più soldi pubblici visto che la Tepco (finora) è riuscita ad evitare di essere condannata penalmente. L’ultima richiesta dei magistrati è di 5 anni di reclusione per l’ex direttore della Tepco e due vicedirettori, per manifesta negligenza nella gestione dell’impianto di Fukushima. Per fortuna le corti di giustizia locali non aspettano il giudizio della corte penale e sentenziano contro la Tepco (l’ultima nella città di Yokoama) affinché risarcisca i danni alle persone sfollate.

Ma attualmente la febbre olimpica di Tokio 2020 fa passare tutto in secondo piano e chiunque tenti di riportare il discorso sul nucleare è guardato con sospetto!

FONTE: Angelo Baracca

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