Secondo Joel Garreau, ex redattore del Washington Post con una passione per la tecno-cultura, quattro aree di ricerca scientifica promettono di modificare nel profondo la condizione di noi tutti, rendendoci “transumani” o “postumani”. Sono genetica, robotica, tecnologie dell’informazione e nanotecnologia. La questione che si impone è se un uomo con il DNA radicalmente alterato o con modifiche cerebrali e vari organi meccanici impiantati possa continuare a essere considerato un “essere umano”. Se il tuo corpo venisse mappato e monitorato in tempo reale, il tuo ciclo ormonale, il sonno e le tossine nel sangue controllati da computer, se la tua struttura fisica, ossa e parti dell’organismo fossero stati riprogettati con le nanotecnologie, riusciresti ancora a definirti un “umano”? Probabilmente no. Ovviamente tutte queste discipline fanno ampiamente affidamento sui computer che, come dice la famosa legge di Moore, raddoppiano la potenza di calcolo ogni diciotto mesi. Se anche l’ingegneria genetica seguisse questo trend, si potrebbe imporre presto una “tecnologia della disumanizzazione”, con noi trasformati in qualcosa di meno (o più?) umano senza aver il tempo di rendercene conto.

Garreau, dopo aver scritto Radical Evolution (Sperling & Kupfer, 2007), è diventato professore di Etica e Tecnologia alla Arizona State University e si è messo a indagare seriamente sul tema. Con i suoi colleghi ha impostato un programma di studi, il Prevail Project, chiamato così in seguito a un famoso discorso in cui Faulkner si dichiarava fiducioso che la razza umana avrebbe “prevalso” anche in caso di una catastrofe nucleare. Probabilmente gli sconvolgimenti della genetica fanno paura quanto esser spazzati via dalla bomba atomica, e la speranza che il buon senso prevalga è un valido punto di partenza.

Il progetto di Garreau quindi si è imposto come punto di riferimento per l’analisi delle tecnologie in grado di mutare radicalmente l’umanità, attraendo temi anche bizzarri, come la diatriba sulla necessità o meno di psicoanalizzare i robot, o la questione del reale impatto delle droghe chimiche sulla rendita scolastica dei giovani americani. Ma anche riflessioni sulla paura che Google possa avere un giorno maggiori informazioni di noi sullo stato di salute del nostro corpo (e mente) o inquietudini tipo “se i droni senza controllo umano uccidono la gente, perché dovrebbero esimersi dal far fuori anche noi?”. Al Prevail Project quindi non mancano certo argomenti di discussione, molti dei quali in grado di provocarci attacchi di panico. Ho partecipato a una delle loro tante conferenze. Con me, uno scienziato che, grazie a un sistema high tech, legge l’attività neuronale di una scimmia e riesce a influenzarne le azioni. Poco dopo un ricercatore militare spiega in tutta tranquillità che un computer può uccidere un soldato in un secondo e mezzo, mentre un uomo necessiterebbe almeno di dieci secondi. Ovviamente, dice l’esperto, i soldati, che odiano perdere le guerre, passerebbero volentieri il lavoro ai robot. Il pubblico è sconcertato dalla portata etica di tutti questi esperimenti e affermazioni, ma per gli scienziati si tratta solo di buon senso ed efficienza. Però quando ritornano in platea, i ricercatori perdono il distacco e si spaventano e sono perplessi come tutti. E questo perché la tecnologia degli altri appare sempre più folle e bestiale della propria. E mi è difficile pensare un atteggiamento più umano di questo.

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