Douglas Rushkoff, uno dei massimi esperti di media e tecnologie digitali, affronta qui il tema molto sentito e attuale della relazione tra umanità e tecnologia, e in senso lato tra uomo e  scienza, nell’era digitale. L’avvento della rivoluzione digitale, solo un paio di decenni fa, sembrava promettere nuovi orizzonti di libertà e di dignità diffusa, poiché aumentando la produttività individuale a livelli prima sconosciuti si pensava che avrebbe lasciato spazio e tempo alla creatività e alle aspirazioni personali. Ma ben presto ci si è resi conto che il suo effetto principale è stata l’intensificazione delle stesse logiche capitalistiche predatorie e di sfruttamento che si volevano superare. Ogni innovazione tecnologica è divenuta rilevante solo finché la si poteva considerare qualcosa di facilmente monetizzabile secondo i criteri speculativi dei mercati azionari. Il risultato è una visione nichilistica, pessimista ed apocalittica del futuro dell’umanità, che pervade tutta la società ma è caratteristica soprattutto delle élite. Una logica che però non è per nulla inevitabile, e può essere superata con un ritorno ai valori dell’umanità.

DI DOUGLAS RISHKOFF 

L’anno scorso sono stato invitato in un luogo privato di villeggiatura di superlusso, per tenere un discorso di apertura davanti a quelli che pensavo sarebbero stati un centinaio di banchieri investitori. Non mi era mai stato offerto tanto denaro per fare un discorso – circa la metà del mio stipendio annuo come professore universitario – per raccontare un po’ di intuizioni sul tema del ‘futuro della tecnologia’.

Non mi è mai piaciuto parlare del futuro. Le sessioni di domande e risposte finiscono sempre in una sorta di gioco da salotto, dove mi si chiede di dire la mia sugli ultimi termini di moda nella tecnologia, come se fossero indicatori per potenziali investimenti: blockchain, stampa 3D, CRISPR. Il pubblico di rado è interessato a imparare qualcosa a proposito di queste tecnologie o dei loro potenziali impatti al di là della scelta binaria se investirvi o no. Ma il denaro parla, e così ho accettato l’invito. 

Appena arrivato, mi hanno portato in quello che pensavo sarebbe stato il camerino. Ma invece di  attaccarmi un microfono o condurmi verso il palco, mi hanno messo a sedere a un semplice tavolo rotondo, mentre mi veniva portato il pubblico: cinque super-ricchi, sì tutti maschi, il vertice del mondo degli hedge fund. Dopo un po’ di conversazione superficiale, mi sono reso conto che non erano affatto interessati alle domande per cui mi ero preparato riguardanti il futuro della tecnologia. Erano arrivati con  domande tutte loro.  

Hanno cominciato in maniera abbastanza innocua. Ethereum o bitcoin? Il quantum computing esiste davvero? Ma pian piano si sono avvicinati ai temi a cui erano davvero interessati. 

Quale regione sarà meno colpita dall’imminente crisi climatica: Nuova Zelanda o Alaska? E’ vero che Google sta costruendo una casa per il cervello di Ray Kurzweil? La sua coscienza sopravviverà alla transizione, o rinascerà come una coscienza totalmente nuova? Alla fine, il CEO di una brokerage house raccontò che aveva quasi completato la costruzione del proprio sistema di bunker sotterranei, e chiese, “Come farò a mantenere l’autorità sulle mie forze di sicurezza dopo l’Evento?”

L’Evento. Era il loro eufemismo per il collasso ambientale, sommosse sociali, esplosione nucleare, virus incontenibile o hackeraggio robotico che butta giù tutto.

Quella singola domanda occupò il resto dell’ora. Sapevano che ci sarebbero volute guardie armate per difendere le loro ville da folle infuriate. Ma come si potevano pagare le guardie, una volta che i soldi avevano perso ogni valore?  Chi poteva impedire alle guardie di scegliere i propri capi? I miliardari pensavano di usare speciali serrature a combinazione per proteggere i depositi di cibo che loro soltanto conoscevano. O far indossare collari di qualche tipo alle guardie, in grado di controllarle, in cambio della loro sopravvivenza. O forse di costruire robot come guardie e operai – se c’era abbastanza tempo per sviluppare la tecnologia richiesta.

Fu allora che capii: almeno secondo questi signori, si trattava davvero di una discussione sul futuro della tecnologia.

Prendendo la mossa da Elon Musk che aspira a colonizzare  Marte, Peter Thiel che inverte il processo di invecchiamento, o Sam Altman e Ray Kurzeil che fanno l’upload delle loro menti in supercomputer, si stavano preparando a un futuro digitale che non aveva tanto a che fare con il rendere il mondo un luogo migliore, quanto nel trascendere del tutto la condizione umana e isolarsi da un pericolo molto reale e presente di cambiamento climatico, livelli del mare che si alzano, migrazioni di massa, pandemie globali, panico nativista ed esaurimento delle risorse. Per loro, il futuro della tecnologia riguarda una sola cosa: la fuga.

Non c’è nulla di male a lasciarsi andare a con fantasie folli su come la tecnologia potrebbe beneficiare la società umana.

Ma la spinta attuale verso un’utopia postumana è qualcosa di diverso.

E’ meno la visione di una migrazione in massa dell’umanità verso un nuovo stato dell’essere, che il tentativo di trascendere tutto ciò che è umano: il corpo, l’interdipendenza, la compassione, la vulnerabilità e la complessità. Come segnalano da anni i filosofi della tecnologia, la visione transumanista troppo facilmente riduce tutta la realtà a dati, arrivando alla conclusione che “gli esseri umani non sono altro che oggetti che elaborano informazioni.

Si tratta di ridurre l’evoluzione umana a un videogioco che qualcuno vince scoprendo la via di fuga e poi invitando un paio di amici a fare un giro con lui. Sarà Musk, Bezos, Thiel…Zuckerberg? Questi miliardari sono i presunti vincitori dell’economia digitale – lo stesso scenario affaristico di sopravvivenza del più adatto che alimenta proprio questa speculazione.

Ovviamente, non è sempre stata così. C’è stato un breve momento, nei primi anni Novanta, in cui il futuro digitale sembrava aprire nuove prospettive, che dipendevano dalla nostra inventiva. La tecnologia era diventata un parco giochi per la controcultura, che vi vedeva un’occasione per creare un futuro più inclusivo, distribuito e filoumano. Ma gli interessi affarstici vedevano soltanto nuove potenzialità per la stessa vecchia estrazione, mentre troppi tecnologi finirono per lasciarsi sedurre da nuove ditte. I futures digitali diventarono sempre più come i futures della borsa o del cotone – qualcosa da prevedere e sui scommettere.

Così quasi ogni discorso, articolo, studio documentario o ricerca diventa significativo unicamente in quanto indica un segno di borsa. Il futuro è diventato meno una cosa che creiamo attraverso le nostre scelte o speranze attuali per l’umanità, che uno scenario predestinato su cui scommettiamo con il nostro capitale di rischio.

Ciò ha liberato tutti dalle implicazioni morali delle proprie attività. Lo sviluppo della tecnologia è diventato meno una storia di fioritura collettiva che di sopravvivenza personale. Peggio, mi sono reso conto che se richiamo l’attenzione su questo, vengo considerato, contro le mie stesse intenzioni, un nemico del mercato o un rancoroso antitecnologista.

Quindi, invece di considerare le questioni etiche pratiche che riguardano l’impoverimento di molti in nome di pochi, la maggior parte degli accademici, giornalisti e autori di fantascienza si sono occupati di dilemmi molto più astratti e fantasiosi: è leale da parte di un trader in borsa usare smart drugs?  Ai bambini si dovrebbero fare impianti perché imparino lingue straniere? Vogliamo che i veicoli autoguidati diano la priorità alle vite dei pedoni rispetto ai passeggeri? Le prime colonie su Marte dovrebbero essere gestite democraticamente? Modificare il mio DNA sovverte la mia identità? I robot dovrebbero avere dei diritti?

Porsi domande di questo genere, sebbene sia filosoficamente divertente, è un misero surrogato per non affrontare i reali dilemmi morali associati allo sviluppo tecnologico illimitato in nome del capitalismo imprenditoriale. Le piattaforme digitali hanno trasformato un mercato già basato sullo sfruttamento e l’estrazione (si pensi a Walmart) in qualcosa di ancora più disumanizzante (si pensi ad Amazon). La maggior parte di noi si è accorta delle ricadute in termini di lavori automatizzati o a richiesta [gig economy], e la morte delle rivendite locali.

Ma l’impatto più devastante del turbocapitalismo digitale ricade sull’ambiente e sui poveri del mondo. La produzione di parte dei nostri computer e smartphone ancora oggi richiede lavoro servile. Queste pratiche sono talmente radicate che un’azienda che si chiamava  Fairphone [“telefono equo”], creata dal basso per realizzare e vendere telefoni etici, apprese che era impossibile (l’azienda oggi tristemente definisce i propri prodotti telefoni “più equi”).

Nel frattempo, l’estrazione di metalli delle terre rare e lo smaltimento delle nostre tecnologie altamente digitali stanno distruggendo gli habitat umani, sostituendoli con discariche tossiche che vengono poi spigolate da bambini contadini assime alle loro famiglie, che rivendono i materiali utilizzabili agli stessi produttori.

Questa esternalizzazione alla “occhio non vede, cuore non duole” della povertà e del veleno non scompars semplicemente perché ci copriamo gli occhi con visori per la realtà virtuale, immergendoci in una realtà alternativa. Casomai, più a lungo ignoriamo le ripercussioni sociali, economiche e ambientali, più diventano un problema. Ciò a sua volta diventa motivo per ritirarci ancora di più, per più isolazionismo e fantasie apocalittiche – e tecnologie e fantasie apocalittiche sempre più deliranti. E’ un ciclo che si autoalimenta.

Più ci impegniamo in questa visione del mondo, più finiamo per vedere gli esseri umani come il problema e la tecnologia come la soluzione. L’essenza stessa di ciò che fa di noi esseri umani viene trattata più come un baco che come una caratteristica. Nonostante i preconcetti che incorporano, le tecnologie vengono dichiarate neutrali. Ogni cattivo comportamento che possono indurre in noi è solo un riflesso del marcio che alberga in noi. E’ come se qualche innata violenza primitiva in noi fosse colpevole dei nostri guai. Proprio come l’inefficienza del mercato locale dei taxi si può “risolvere” con un’app che manda in rovina gli autisti umani, le fastidiose incoerenze della psiche umana si possono correggere con un upgrade digitale o genetico.

In ultima istanza, secondo l’ortodossia tecnosoluzionista, il futuro dell’umanità raggiunge il suo apogeo facendol’upload della nostra coscienza a un computer o forse meglio, accettando la tecnologia stessa come nostro successore evolutivo. Come membri di una setta gnostica, aneliamo a entrare nella fase trascendente del nostro sviluppo, scartando i nostri corpi e lasciandoceli indietro, assieme ai nostri peccati e guai.

I nostri film e serie televisive mettono in atto per noi queste fantasie. Le serie con zombie disegnano un  post-apocalisse dove le persone non sono meglio dei non-morti – e sembrano rendersene conto. Peggio ancora, questi spettacoli invitano gli spettatori a immaginare il futuro come una battaglia a somma zero tra gli umani sopravvissuti, dove la sopravvivenza di un gruppo dipende dalla morte di un altro. Anche Westworld —basato su un romanzo di fantascienza dove i robot impazziscono – finì nella seconda stagione con una rivelazione finale: gli esseri umani sono più semplici e prevedibili dell’intelligenza artificiale che creiamo. I robot imparano che ciascuno di noi può essere ridotto a poche righe di codice, e che siamo incapaci di fare scelte volontarie. Persino i robot in quella serie vogliono sfuggire ai confini dei propri corpi e passare il resto della loro vita in una simulazione informatica.

Versione orinale: Fonte: https://medium.com/s/futurehuman/survival-of-the-richest-9ef6cddd0cc1

Versione italiana: Fonte: http://kelebeklerblog.com/

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