La saggezza di Tolkien è affidata alle parole di Gandalf, nella conclusione del Signore degli Anelli, ove dice: “…Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi”.
Alla ricerca dell’umanità perduta: l’antropologia in Chesterton, Tolkien e Lewis
L’Inghilterra è stata – nel corso degli ultimi due secoli – un grande laboratorio ideologico da cui sono uscite numerose linee guida del pensiero moderno e post moderno. Un percorso filosofico che ha dato un contributo fondamentale alla realizzazione dell’attuale “società liquida”, dove l’umanità è andata progressivamente destrutturandosi. Non è un caso che la grande letteratura distopica (Benson, Orwell, Huxley, Burgess e altri) sia nata proprio in ambito culturale britannico.
A fronte di questi veri e propri “antigeni” patologici, si può dire che sempre in Inghilterra si siano sviluppati per tempo anche gli anticorpi culturali. I principali protagonisti di questo tentativo di respingere la malattia e restituire la salute al pensiero umano vide come protagonisti tre grandi scrittori: G.K. Chesterton, C.S. Lewis e J.R.R. Tolkien, tre veri giganti della narrativa e della cultura. Tre cercatori e difensori della Verità.
C’è un filo rosso che collega questi tre personaggi, oltre al fatto che sia Lewis che Tolkien furono lettori di Chesterton (che li precedeva di quasi una generazione) e che a loro volta Tolkien e Lewis furono grandi amici e sodali? Proviamo ad individuare sinteticamente questo filo rosso.
Gilbert Keith Chesterton, è tuttora uno dei più popolari scrittori di lingua inglese, tradotto e letto in tutto il mondo. Nato a Londra nel 1874, in piena Epoca Vittoriana, si spense nel 1936, a soli sessantadue anni, dopo una vita spesa con amore e passione per il Bello, il Buono, il Vero. Chesterton fu autore assai prolifico, che ci ha lasciato una produzione decisamente abbondante, consona alle dimensioni fisiche del suo autore. Accanto alle ben note opere narrative, tra le quali spiccano i racconti di padre Brown, nonché i romanzi, ricchi di immaginazione fantastica, da “Il Napoleone di Notting Hill” a “L’Osteria Volante” a “L’uomo che fu Giovedì“, troviamo un’eccezionale attività saggistica, e il suo talento sfornò in tale attività opere come Ortodossia o le biografie di santi come Francesco d’Assisi e Tommaso d’Aquino.
Fu un genio che scosse l’Inghilterra dei primi decenni del ‘900. I suoi romanzi sono i tipici esempi del cosiddetto “giallo-enigma”, in cui si giunge alla soluzione del caso solo dopo una minuziosa raccolta ed analisi degli indizi. “Indagare il mistero” fu anche lo stile di vita che assunse, oltre che una caratteristica della sua arte. Con l’uso sapiente del paradosso, GKC non si limita a far sorridere il lettore. Gli svela che il mondo lasciato a se stesso diventa sempre peggiore. La conseguenza più deleteria della scristianizzazione non è stato il pur gravissimo smarrimento etico, ma lo smarrimento della ragione. Il mondo che rifiuta Dio, che gli volta le spalle, che vuole fare a meno di Lui, impazzisce, e mette sotto accusa, e condanna, cose belle e buone, cose che egli invece si impegna a salvare. Il tutto con una grande umiltà e semplicità, quasi senza prendersi troppo sul serio. Lo scrittore fiorentino Emilio Cecchi, che di Chesterton fu amico, e al quale si deve la conoscenza e la prima diffusione delle opere in Italia, fin dagli anni ’30 del ‘900, disse che Gilbert sembrava un vescovo travestito da clown.In realtà, potremmo dire che era ben più che un vescovo: era un autentico Padre della Chiesa, travestito da clown. Nelle sue opere Chesterton si rivela come un vero e proprio teologo, che seppe rivolgere il suo sguardo e la sua indagine attenta ad un campo vastissimo di sapere: Hans Urs Von Balthasar, uno dei più grandi teologi del XX secolo, nel secondo e terzo volume di “Gloria“. Un’estetica teologica, mostra come quelle teologie che hanno lasciato un segno nella storia della Chiesa, sono solo quelle teologie che lasciano irradiare qualcosa della gloria e della bellezza dell’amore di Dio che si è rivelato in Cristo.
In effetti Chesterton si era assunto per tutto il corso della sua vita il compito di una difesa: di persone e cose concrete, del buon senso e della ragionevolezza. Difese la sostanza della Fede, ovvero la concretezza, oltre che un grande patrimonio da non perdere, da non svalutare, da non sciupare, ma anzi da valorizzare. Fece proprio il compito che la Chiesa ha da duemila anni: difendere e salvare l’uomo dal nulla e dalla distruzione. Un compito che in qualche modo venne fatto proprio anche da Clive Staples Lewis, uno dei più singolari intellettuali dell’Inghilterra del suo tempo, uno dei più celebri convertiti del suo tempo: approdato al Cristianesimo, dopo una lunga militanza atea e scientista, aveva scritto opere storiche e libri in difesa del Cristianesimo in un mondo che vedeva scivolare inesorabilmente verso l’indifferentismo religioso.
Lewis, che fu docente a Oxford e Cambridge, nel cuore dunque dell’establishment intellettuale britannico, nato a Belfast, in Irlanda, nel 1898, appartenente alla comunità lealista e protestante. Da calvinista era diventato ateo militante, per poi infine ritrovare le vie di Dio e del Cristianesimo grazie all’incontro con l’amico Tolkien, con cui condivideva la passione per le antiche mitologie. Divenne così un apologeta del Cristianesimo, le cui ragioni difese in numerosi saggi e nelle brillanti “Lettere di Berlicche“. Decise tuttavia di mostrare tutta la Bellezza della Fede anche attraverso la narrativa, e in particolare la Letteratura Fantastica. Nell’estate del 1948, il professor Lewis cominciò a scrivere un racconto fantastico che intitolò Il leone, la strega e l’armadio. Quando il libro uscì, fu un successo incredibile, anche piuttosto inaspettato. Un libro che era uscito da un sogno, dai ricordi dell’infanzia e dal suo amore per la Bellezza e per la Verità, divenne l’inizio di un ciclo, “Le Cronache di Narnia“, che ebbe termine esattamente nel 1956, con la pubblicazione del settimo volume, “L’Ultima Battaglia“. I lettori si trovarono di fronte non semplicemente all’episodio conclusivo della saga di Aslan e dei fratelli Pevensie, ma alla rappresentazione dello scontro finale che attende il mondo, una visione del l’Apocalisse dove Satana lancia la sua ultima sfida contro la visione cristiana del mondo, contro l’idea dell’uomo fatto ad immagine di Dio, e vuole affermare un potere che prevarica norme e leggi di natura per assecondare empi desideri e ambizioni. Tutti i personaggi incontrati nei sei romanzi precedenti vengono alla ribalta: il Professor Kirk, Edmund, Peter, Lucy, gli gnomi, il topo Ricipì … Ma i veri eroi di questo atto finale sono Tirian, ultimo discendente dei re di Narnia, e i due bambini Eustachio Scrubb e Jill Pole, che devono smascherare un assurdo impostore. Si dà il caso, infatti, che lo scimmione Shift abbia travestito da leone l’asino Puzzle, cercando di farlo passare per il leggendario Aslan, e che qualcuno ci abbia creduto. È ancora una volta l’allegoria cristiana che traspare: la scimmia che vuole usurpare il posto di Aslan è l’Anti-Cristo, che la Scrittura definisce “la scimmia di Dio”, una tragica parodia. Contro le forze della magia il bene mette in campo la verità che smaschera la menzogna, la fedeltà che si oppone al tradimento, il valore che surclassa la viltà, il bene che sconfigge il potere malefico.
E alla fine tutto è compiuto, e Aslan può rivelare a ciascuno il proprio destino, invitando a non avere paura, e a tornare definitivamente nel nostro mondo, il Paese delle Ombre..
Concludendo la vicenda di Narnia, Lewis ci ricorda che l’uomo è fatto per la verità, che può raggiungerla e tale ricerca non è vana. Basta tornare bambini, e “chiedere ancora”, cioè vivere con intensità la dimensione della domanda e del desiderio.
Così si può dire della figura e dell’opera di J.R. Tolkien. Il suo capolavoro, “Il Signore degli Anelli”, ben lungi dunque dall’essere un semplice racconto per ragazzi o una storia fantasy di evasione, è il racconto intenso e affascinante di questa lotta iniziata agli albori dei tempi, scritta da un uomo dalla biografia apparentemente semplice e tranquilla che fu invece uno dei più grandi scrittori del Novecento, e che ridando dignità all’arte umana della subcreazione ci ha insegnato a ricercare la Bellezza e la Verità. Non è azzardato, all’inizio del Ventunesimo secolo, guardare a Tolkien come a un vero e proprio classico, come all’Omero cristiano del ‘900 che ha saputo coniugare il mito e la grazia. Ciò che ispirò e che diede significato alla sua vita e alla sua opera non è riconducibile a una ideologia, ma ad una visione della vita, ad una concezione dell’essere, dell’uomo, della storia che è ben di più che una ideologia: è una filosofia. Tolkien possiede addirittura quella che potremmo definire una visione teologica della storia, attraverso la quale giudica, con l’autorevolezza di un filosofo o di un profeta le vicende umane. Tolkien come critico della modernità, dunque, del mondialismo, della omologazione massificante, a cui contrapponeva la cultura dell’appartenenza e del radicamento. In una società multietnica e multiculturale come quella della Terra di Mezzo, i piccoli hobbit difendono la loro Contea, il loro piccolo mondo pacificamente rurale e ricco di tradizioni.
Il Signore degli Anelli altro non è che un grande racconto di viaggio, un viaggio per compiere un’impresa straordinaria, occorre che ogni lettore di questo capolavoro compia a sua volta un grande viaggio all’interno del libro, dei suoi simboli, dei suoi temi, dei suoi eroi. L’elemento religioso è radicato nelle storie di Tolkien e nel loro simbolismo. La sua stessa passione per il narrare nasce dal desiderio di comunicare la Verità, attraverso simboli e visioni. «Il Vangelo – spiegava- è la più grande Fiaba, e produce quella sensazione fondamentale: la gioia cristiana che provoca le lacrime perchè qualitativamente è simile al dolore, perchè proviene da quei luoghi dove gioia e dolore sono una cosa sola, riuniti, così come egoismo e altruismo si perdono nell’Amore».
In questa intensità epica e spirituale dell’opera di Tolkien sta il segreto della straordinaria attualità di questo autore di narrativa fantastica che si fa veicolo di valori immutabili, profondamente connaturati col cuore dell’uomo, i suoi sogni, le sue speranze. Il suo capolavoro, Il Signore degli Anelli, è il racconto epico di un periodo di transizione, che rappresenta un autentico manuale di sopravvivenza tra gli errori e gli orrori della Modernità. «Come può l’uomo giudicare che cosa deve fare in tempi come questi?» chiede un personaggio del capolavoro tolkieniano, e gli risponde Aragorn, l’uomo destinato ad essere Re giusto: «Come ha sempre giudicato: il bene e il male non sono cambiati nel giro di un anno e non sono una cosa presso gli elfi e i nani e un’altra tra gli uomini. Tocca ad ognuno di noi discernerli». Un’altra definizione restrittiva che è stata data di Tolkien è quella di “conservatore”; tutto sommato il professore non se ne adonterà, ma se tale termine vale nel senso di conservatore di tutto ciò che è bello, puro, piccolo, ordinato, interessante, importante. “I grandi assorbono i piccoli e tutto il mondo diventa più piatto e noioso”, scrisse una volta. Questa avversione di Tolkien per le brutture e gli errori della modernità non è ideologica poichè è realistica, non nasce, cioè, da un idea di mondo, o da un progetto più o meno utopico su di esso, ma dalla constatazione della natura e della condizione umana, segnata indelebilmente dalla Caduta (in termini cristiani dal Peccato Originale), talchè il Nemico da battere è sì l’avversario malvagio (Sauron o Saruman) ma è soprattutto il male che si annida infido in ciascuno di noi.
Tolkien fu un cristiano che cercò di parlare al cuore delle persone per invitarle a non cedere alla tentazione dello scoraggiamento, del cinismo, della bruttezza e del male. Questo è il grande segreto dell’opera di Tolkien, come ebbe a spiegare il figlio Michael: «Almeno per me , non c’è nulla di misterioso nell’entità del successo toccato a mio padre, il cui genio non ha fatto che rispondere all’invocazione di persone di ogni età e carattere, stanche e nauseate dalla bruttezza, dall’instabilità, dai valori d’accatto, dalle filosofie spicciole che sono stati spacciati loro come tristi sostituti della bellezza, del senso del mistero, dell’esaltazione, dell’avventura, dell’eroismo e della gioia, cose senza le quali l’anima stessa dell’uomo inaridisce e muore dentro di lui».Il ritorno al Bello e al Vero auspicato dallo scrittore di Oxford venne realizzato da lui attraverso il ricorso e il ritorno al Mito, per ridare sanità e santità all’uomo moderno. «Il mito è qualcosa di vivo nel suo insieme e in tutte le sue parti, e che muore prima di poter essere dissezionato», disse Tolkien parlando ai suoi studenti di una delle sue opere preferite, il Beowulf. Tolkien rivela nitidamente una propria teologia della storia, che riprende la concezione agostiniana delle due città: la Città terrena, opera degli uomini in cui agisce il male, e la Città di Dio, meta verso la quale indirizzare attese, sforzi e speranze. È da sottolineare che Sant’Agostino si trovò a vivere al confine tra il crepuscolo di un mondo antico un tempo grandioso e l’alba di una nuova era dai contorni ancora incerti, e insegnò che la storia è guidata dalla Provvidenza e che quindi ogni avvenimento – dalla piccola vicenda personale alle grandi svolte dell’umanità – possiede un significato che dissipa l’oscurità e sorregge le forze dell’uomo. Le rovine, i numerosi segni di civiltà cresciute, ascese a grandezza e poi irrimediabilmente finite e dimenticate costellano ovunque la Terra di Mezzo, ricordandoci la caducità della Città terrena. Questo era il contenuto e lo scopo di un’altra opera di Tolkien, “Il Silmarillion”, scopo che Tolkien, forse senza avvedersene, seppe raggiungere già nel Signore degli Anelli. In esso trasportò molta della tragica bellezza, della maestosità, della solennità contenute nei cicli del Silmarillion: la materia si era plasmata tra le sue mani, e ora veniva riversata abbondantemente in questa che doveva essere una storia di hobbit, e che finì per diventare la grande epica da lui da sempre sognata. Il compito della vita consiste nel sanare ciò che è malato, sconfiggere ciò che è sordido, elevare il proprio spirito, nella condizione in cui ciascuno è chiamato ad esistere, riconciliando la propria natura con quel dono proveniente dal divino che possiamo chiamare grazia.
Il mito è necessario perché la realtà è molto più grande della razionalità. Il mito è visione, è nostalgia per l’eternità.Nel marzo del 1939 egli tenne una conferenza sul tema delle storie fantastiche a St. Andrews, in Scozia. Il testo di questa straordinaria conversazione divenne poi un saggio, On Fairy Stories (tradotto in italiano col titoloSulle fiabe, pubblicato nel volume Albero e foglia). In esso egli rivendica questo ruolo della fantasia sub-creatrice come diritto umano: creiamo alla nostra misura e in modo derivativo in quanto siamo stati a nostra volta creati, e per di più ad immagine e somiglianza del Creatore. La fantasia è un mezzo di recupero della freschezza della visione della realtà, come rimedio all’ovvietà con cui trattiamo il vivere quotidiano. La fantasia – e quindi il racconto fantastico – ha per Tolkien una triplice funzione: ristoro, evasione, consolazione. Il ristoro, ovvero il ritorno e il rinnovamento della salute, consiste per il Professore di Oxford nel ritrovare una visione chiara della realtà, nel “vedere le cose come siamo destinati a vederle”. Tolkien stesso dichiarava di non voler rubare il mestiere ai filosofi esponendo queste sue tesi, preferendo la via dell’immaginario, del paradosso, dell’immagine velata, allo scopo di liberarci dai vari orpelli che, nella vita ordinaria, mascherano il volto della verità. Nel ventesimo secolo l’Altrove del mito letterario si è avventurato spesso e volentieri sul terreno dell’utopia, preferendo tuttavia viaggiare nello spazio e nel tempo, aprendo l’immaginazione su nuovi mondi e nuove frontiere, frequentemente prefigurando scenari decisamente inquietanti. John Ronald Tolkien rifiuta invece ogni idea di utopia; la sua, semmai, è una storia ucronica, situata cioè in un tempo non identificabile. Il luogo – lo si è detto – è invece questa terra, la sola che ci sia data, e che dobbiamo amare .
La saggezza di Tolkien è affidata alle parole di Gandalf, nella conclusione del Signore degli Anelli, ove dice: “Altri mali potranno sopraggiungere, perchè Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi”. Questo è il manifesto dell’umano realismo, profondamente cristiano, opposto agli incubi di tutte le utopie, con le loro promesse ingannatrici e illusorie.
(Tratto dall’intervento di Paolo Gulisano alla conferenza “Alla ricerca dell’umanità perduta. L’antropologia in Chesterton, Tolkien e Lewis” del 24 febbraio 2017, organizzata dal Centro Studi Minas Tirith)
FONTE http://www.nazionefutura.it/idee/alla-ricerca-dellumanita-perduta-lantropologia-chesterton-tolkien-lewis/
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