Non immaginatevi uno scenario alla Star Wars: un conflitto orbitale riguarderebbe più che altro  cyberattacchi e tentativi di spionaggio, orchestrati da eserciti di nerd alla scrivania...

Donald Trump ha fatto più volte riferimento allo Spazio come possibile terreno di guerra – «proprio come terra, aria e mare» – e ha menzionato la necessità di costituire forze armate spaziali. Ma che caratteristiche avrebbe, un conflitto armato nello Spazio? Come possiamo immaginarlo, alla luce delle moderne tecnologie?

 La questione è al centro di un’interessante analisi pubblicata sul sito del New Scientist. Tanto per cominciare, non dobbiamo immaginarci combattimenti alla Star Wars – nessuna Marina Imperiale su astronavi da guerra, nessuna morte che piove dal cielo. Un eventuale conflitto spaziale non coinvolgerebbe piloti da combattimento o forze speciali: «ma piuttosto un mucchio di ingegneri in un centro di controllo o nei laboratori» spiega Todd Harrison, del Centro di Studi Strategici e Internazionali di Washington DC. «Il dominio spaziale sarebbe gestito da nerd».

 OBIETTIVI SENSIBILI. Lo sappiamo perché, di fatto, questa forza armata spaziale esiste già, dal 1982: l’Air Force Space Command impiega il doppio di operatori della Nasa (l’agenzia spaziale “civile”) per far operare e proteggere i satelliti statunitensi. Perché è sui satelliti, che si giocherebbe la partita più importante. Non su un esercito in carne ed ossa – il corpo umano non è particolarmente funzionale, nello Spazio – né su bombardamenti orbitali: gli oggetti in orbita si muovono talmente velocemente, che rimangono pochissimo sopra un punto specifico da bombardare. A tale scopo, sarebbe molto più efficace un bombardiere o un missile balistico.

 

Il Programma test Apollo-Sojuz (ASTP), la prima collaborazione ufficiale tra USA e Unione Sovietica in ambito spaziale (luglio 1975). 

CHE COSA È CAMBIATO. Difendere, far funzionare i propri satelliti – e neutralizzare quelli nemici – sarebbero gli obiettivi più importanti. Qualcosa di simile è già avvenuto a partire dagli anni ’50, durante la Guerra Fredda.

I satelliti Usa e sovietici svolgevano compiti di spionaggio, fornendo informazioni sulle operazioni militari e gli armamenti nucleari nemici. Attaccare un satellite avversario avrebbe giustificato un’immediata aggressione militare. Il responsabile sarebbe stato immediatamente noto, e si sarebbe tentato di distruggere il suo arsenale atomico: la presenza di satelliti di entrambe le potenze in orbita servì in un certo senso, da deterrente contro gli attacchi ai satelliti stessi.

 Oggi non sarebbe più così: con la proliferazione di satelliti militari, per le telecomunicazioni e la localizzazione gps, lanciati da agenzie spaziali nazionali o da privati, nessuno scatenerebbe un conflitto mondiale per un singolo pezzo di hardware neutralizzato.

 UN ATTACCO CINETICO? SCONVENIENTE. Senza contare che disabilitare i satelliti è diventato più semplice. Bombardarli direttamente rimane una pessima idea. Nel 2007, la Cina lanciò un missile contro uno dei propri satelliti meteo in un controverso test militare, che creò circa 2000 detriti spaziali tracciabili (più altri 150 mila ancora più piccoli): il singolo impatto celeste più inquinante mai avvenuto.

 Esistono modi più discreti e meno pericolosi per mettere ko un satellite rivale. Lo si può disturbare con comunicazioni radio (jamming), trasmettendo alla stessa frequenza per rendere meno chiaro il suo segnale. Si può ricorrere allo spoofing, un attacco simile ma che sostituisce false informazioni al segnale neutralizzato. O lo si può hackerare, cioè prenderne completamente il controllo violandone il sistema informatico: è più complicato, ma è apparentemente accaduto a un satellite meteo della NOAA, attaccato da hacker cinesi nel 2014.

FONTE 

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