di Simona Bonfante
Usiamo tutti i servizi digitali “gratis” che negli ultimi anni ci hanno cambiato la vita, in meglio. (ndr ??) Googliamo gratis “take away vicino casa” o i sintomi che ci permettono l’auto-diagnosi di una patologia. Gratis anche le mappe che ci tracciano con puntualità centimetrica per consentirci la scelta viabilistica migliore, in base ai dati sugli spostamenti che altri automobilisti stanno rilasciando a loro volta in tempo reale.
Cerchiamo gli hotspot pubblici nei locali e in giro per la città, per usare gratis la rete con una connessione wifi, invece di consumare i dati della nostra Sim (che invece paghiamo). Usiamo gratis le app di incontri, i social network, e ne usiamo più di uno di social network – Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat – perché ciascun social ha (o ha avuto) il suo perché.
Usiamo gratis WhatsApp da quando l’amico che è sempre più avanti di noi ci ha invitato a scaricarla per messaggiarci “gratis” – e come potremmo farne a meno, oggi. Raramente usiamo Telegram per la messaggistica criptata – quella, per intenderci, usata dai jihadisti. Usiamo invece la app “salute” su cui inseriamo i nostri dati più sensibili – il colesterolo, il calendario della fecondità, la pressione. Tutto gratis.
Gratis erano anche le prime piattaforme che promettevano di individuare lo “score”, il punteggio sull’influenza social di un utente, in base al numero di amici e follower, il “reach” cioè la platea potenziale, le interazioni generate. Una di queste piattaforme, Klout, si affermò talmente tanto negli Usa da essere usata anche dalle agenzie di recruiting per valutare il valore dei candidati ad un posto di lavoro. Poi si è visto che questo metodo di determinazione dello “score” incentivava le persone a manipolarlo, per risultare più social-influenti. Si sono infatti intanto diffuse tecniche (e business) di “social doping”, come la possibilità di acquistare pacchetti di follower. Con cifre modiche se ne portavano a casa 10.000, fake o fraudolentemente acquisiti.
Facebook ha acquistato WhatsApp per diciannove miliardi di dollari, quando WhatsApp non faceva praticamente utili. Era solo una app usata gratuitamente da un miliardo e mezzo di persone. Un miliardo e mezzo di persone, i loro dati, le loro relazioni. Una fortuna.
Se un servizio altamente tecnologico è “gratis”, vuol dire che il prodotto è l’utente. “Gratis” ha un costo, e quel costo siamo noi, i nostri dati. Per “dati” non si intende (solo) la mail e il nome che inseriamo nel form quando ci registriamo, ma quelli che trasmettiamo ogni giorno su di noi, sulla nostra personalità, le nostre amicizie, abitudini, consumi semplicemente scaricando una app o usando un servizio digitale.
Noi però non sappiamo quali Big Data vengano estratti, come vengano elaborati. Né sappiamo esattamente a chi vengano venduti, e con quale finalità. Ci sono le informative, certo, che però non dicono quello che invece dovremmo sapere. Ad esempio: che dati ricava l’algoritmo dalla foto in fila alla Posta per pagare una multa, postata su Facebook per riderci su? E il post di lamentela per la lista d’attesa lunghissima all’ospedale pubblico per una Tac? Sono esempi di post personali, apparentemente innocui, e che invece possono essere usati contro di noi, a nostra insaputa.
Cosa se ne fa Facebook di queste informazioni? Le elabora, le interpreta, le vende. Come le elabora è segreto. Come le interpreta si può intuire. A chi quei dati invece vengono venduti e con quale finalità invece si dovrebbe sapere ma non si sa. Può comprarle ad esempio una società di assicurazioni, che avrà certo interesse ad avere informazioni sul cliente di una polizza auto, ed apprendere dai suoi stessi post che la sera esce e si sbronza, probabilmente fuma (ha messo un Like a Legalizziamo), fa un lavoro creativo, frequenta gente strana (visita spesso le carceri o ne parla) quindi non c’è da fidarsi. Ma Facebook può vendere il suo patrimonio algoritmico anche ad una società di recruiting, al nostro datore di lavoro o, ad esempio, un governo.
I Big Data sono la commodity dell’era globale. E’ giusto che ci sia un mercato e che questo mercato sia regolato. Le regole però non riguardano solo il canonico regime di concorrenza e lotta ai monopoli, né solo la privacy, la “conoscenza”, il conflitto di interessi o il pluralismo dell’informazione. E’ l’insieme di questi domini, la loro intersezione, che apre una riflessione inedita per le democrazie. A differenza della DDR qui la spia ce la facciamo noi stessi.
In materia di privacy e gestione dei dati personali l’Unione Europea è da sempre molto avanti. Ma le regole, talvolta, hanno valore formale più che sostanziale: si pensi all’autorizzazione obbligatoria dei cookie. Inutile: il tracciamento dei nostri comportamenti online avviene già una loro modo.
In Usa siamo più o meno al Far West. Lì i Big Data vengono già diffusamente impiegati per guidare interessi privati e policy pubbliche. Alcuni tribunali Usa addirittura si avvalgono già di algoritmi che consentono di prevedere il tasso di recidività di una persona, col risultato che se quella persona è un negro di un quartiere sfigato subisce pene più pesanti proprio in virtù del suo tasso di recidiva “ambientale”.
La consapevolezza di questa pervasività dei Big Data è oggi patrimonio solo delle élite – esperti di privacy, smanettoni, attivisti. Pochi i policymaker impegnati, almeno in Italia. La posta in gioco però è democratica, non tecnologica. E sono i più umili, i meno attrezzati, a pagare di più.
La responsabilità di occuparsene, quindi, è politica.
La nuova “fame nel mondo” oggi è il diritto di conoscere e controllare le proprie tracce digitali, per poterle cancellare o prevenirne la diffusione.
La questione Big Data non è insomma meno concreta, meno attuale, meno urgente di quanto a suo tempo fu la preveggente battaglia per aiutare i poveracci a casa loro.
FONTE http://www.radicali.it/rubriche/democrazia/se-gratis-allora-il-prodotto-sei-tu/
Un’identità biometrica digitale per tutti, tramite un’app gratis per smartphone.
YOTI o Your Own Trusted Identity verificherà la tua identità con l’utilizzo di parametri biometrici tramite un’app gratuita
Yoti, una start-up britannica, sta provando a istituire un sistema globale di identificazione per proteggere gli utenti da qualsiasi furto di identità conservando, catalogati e archiviati, i dati di tutti. Le informazioni infatti resteranno all’interno dell’ecosistema Yoti, dove le varie informazioni come nome, genere, data di nascita, ecc saranno criptate e archiviate separatamente. Solo l’utente interessato potrà accedervi e recuperarle integralmente.
Yoti, nome che deriva da Your Own Trusted Identity, richiede un semplice smartphone e sarà disponibile nelle versioni sia per iOS che Android. Il pubblico interessato sarebbe potenzialmente di miliardi di utenti.
Yoti richiederà agli utenti di creare un’identità digitale. Questo implica che dovranno fornire identificativi biometrici come una ripresa video del volto e della voce, in aggiunta a una fotografia registrata su un documento di identità valido per il governo, come ad esempio quella del passaporto o della patente di guida.
Yoti eliminerà il tutto subito dopo aver creato il profilo ID. Il co-fondatore e CEO, Robin Tombs, assicura infatti che le foto dei passaporti vengono cancellate dopo sette giorni.
Gli utenti in possesso di un telefono con Sistema Android con NFC possono leggere direttamente il chip dal loro passaporto, mentre per gli utenti Apple questo non è ancora possibile.
Se una compagnia vorrà verificare l’identità di un utente, potrà farlo tramite un QR code di riferimento e l’app Yoti. Essi potranno verificare la propria identità Yoti inserendo un codice digitale di 5 cifre o il loro profilo biometrico, facendo un video a loro stessi o pronunciando parole casuali in direzione dello schermo del proprio smartphone. Se si sta usando lo smartphone con la camera nella modalità normale, l’app girerà automaticamente la fotocamera nella modalità frontale per permettere il riconoscimento in maniera facile e veloce.
Tombs afferma che il sistema non è completamente a prova di truffa perchè un utente potrebbe essere in possesso di passaporto o patente falsi. In ogni caso risulta più sicuro di altri metodi basati su un riconoscimento tramite nome e indirizzo di residenza, posizione, compleanno, cognome da nubile della propria madre o generalità simili.
Un altro vantaggio per gli utenti sarà quello di poter verificare e confermare le proprie identità senza dover divulgare informazioni personali. Per esempio nel caso in cui ci sia la necessità di esibire un proprio documento per provare che si è maggiorenni, questo porta a trasmettere molte più informazioni personali oltre alla data di nascita, senza che ce ne sia la necessità.
Un ulteriore vantaggio è che le persone potranno usare una singola identità Yoti per molti scopi, come supermercati, locali, banche o quant’altro. Essa funziona inoltre come un sistema peer-to-peer che si può utilizzare quando si incontra per la prima volta qualcuno che non si conosce.
Inoltre, ovviamente, Yoti lavora online a livello globale. Si può usare infatti per effettuare il log-in sui siti web ed è dotato di password.
Yoti non ha bisogno di vendere i dati personali degli utenti o spazi pubblicitari, dato che si finanzia facendo pagare le compagnie per il loro servizio di ID.
“Noi abbiamo un modello di business maturo” afferma Tombs. “Molte aziende al momento pagano per controllare in background con una percentuale di successo dell’80%. Questo sicuro non è un buon risultato quanto di avere una percentuale di successo del 100%… e noi siamo più a buon mercato di un normale database.”
Certamente però c’è però il classico problema dell’uovo e della gallina nel momento della scelta di adottare o meno un servizio come Yoti. Molti utenti non accettano di creare una propria identità digitale se non ne hanno un pressante bisogno e molte compagnie non sono propense a richiedere un sistema di riconoscimento Yoti se nessuno dei loro dipendenti ne è in possesso.
Questo problema sarebbe facilmente risolvibile se Facebook o un grosso dipartimento del governo dovessero adottare integralmente la soluzione Yoti. Essere adottata da una banca o da una grossa catena di supermercati a livello nazionale, che risulta possibile se un circuto come NCR (sistema bancomat USA) dovesse supportare il sistema, sarebbe un enorme passo avanti. Anche Twittertrarrebbe giovamento dall’adozione di un sistema come Yoti.
Al momento Yoti sta lavorando con un paio di dozzine di realtà. Fra queste troviamo NSPCC, l’associazione nazionale di beneficenza del Regno Unito, NCR, Reed, una grande agenzia di reclutamento, e Deltic, la più grande catena di nightclub del Regno Unito.
Le persone che utilizzano siti liberi da pubblicità per comprare e vendere oggetti potrebbero usare Yoti per confermare la loro identità e ricevere un Trusted Member badge. Questo approccio potrebbe funzionare su eBay, Gumtree o Craiglist e su siti di incontri online.
Yoti, secondo dati rilasciati dalla stessa compagnia, ha ottenuto 140 mila download finora e ben 95 mila arrivano da utenti britannici.
L’azienda, fondata nel 2014, a oggi conta circa 180 dipendenti, la maggior parte a Londra. Lo scopo di Yoti è di raggiungere il milione di utenti “entro l’estate del 2018, espandendosi in India, Stati Uniti ed Europa”. Il servizio è già in grado di accettare passaporti da 140 nazioni.
FONTE http://www.fastweb.it/smartphone-e-gadget/identita-biometrica-digitale-con-l-app-yoti/
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