Colin Todhunter propone una critica profonda e articolata al sistema agroalimentare industriale, mostrando come non sia semplicemente “in crisi”, ma perfettamente funzionante secondo una logica di dominio, profitto ed espropriazione. Mette in luce le alternative e invita a ripensare radicalmente il nostro rapporto con la terra, la natura e la produzione di cibo, andando oltre le semplici riforme tecniche per proporre un vero cambiamento di paradigma.
Un altro modello di produzione e relazione con la terra è possibile, valorizzando la biodiversità, la conoscenza locale e l’autonomia delle comunità.
Tre libri dell’autore citati nell’articolo, tra cui The Future of Food, possono essere letti gratuitamente .https://archive.org/details/future-of-food/page/n145/mode/2up
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Non si tratta di un sistema rotto: dall’alimentazione allo sviluppo, è un capolavoro di controllo
Colin Todhunter
L’agricoltura industriale non è un sistema in crisi. È un sistema al comando. Progettata con precisione, riflette la logica civilizzatrice della modernità industriale: dominio anziché cooperazione, profitto anziché sufficienza, scala anziché ecologia. Non sta malfunzionando: sta funzionando esattamente come previsto.
Attraverso tre volumi—Food, Dependency and Dispossession (2022), Sickening Profits (2023) e Power Play: The Future of Food (2024)—ho tracciato questa critica in termini stratificati. Quello che emerge non è un fallimento settoriale, ma un regime planetario di spossessamento: una macchina che converte la vita ecologica in beni economici, mina l’autonomia sotto la bandiera dello sviluppo e metabolizza la resistenza trasformandola in riforme compatibili col mercato.
Il sistema alimentare non è rotto. È un’arma. E lo è per sua natura. Concentra il potere, separa le persone dalla terra, priva di competenze e sostituisce i produttori, mercifica il nutrimento. Avvantaggia il capitale finanziario e gli attori aziendali, mentre esternalizza i suoi costi—sulla salute, la biodiversità, il lavoro e la cultura.
Nel Sud Globale, lo “sviluppo” è il guanto di velluto della dipendenza strutturale. Arriva mascherato dal linguaggio della riduzione della povertà e della resilienza climatica—mentre approfondisce l’indebitamento, consolida sistemi proprietari di sementi e subordina la sovranità alimentare alla logica delle esportazioni. Per tutta la sua retorica e il suo PR ben confezionato, Bayer non sta salvando l’agricoltura indiana. La sta recintando.
Dietro i messaggi patinati del marchio si nasconde uno schema familiare. I contratti aziendali sostituiscono i beni comuni. Gli input proprietari sostituiscono la conoscenza. La terra viene recintata—non sempre da recinzioni, ma da codici, debiti e astrazioni burocratiche. Questo non è progresso. È disempowerment programmato. La “gabbia d’acciaio” della razionalizzazione di Weber non è più una metafora: è politica agronomica, governance algoritmica e cattura istituzionale.
I teorici del post-sviluppo come Arturo Escobar e Gustavo Esteva hanno da tempo smascherato il “progresso” come una narrazione coloniale—che cancella la pluralità e impone una visione unica della modernità. Lo studio di Barrington Moore sulle strutture di classe agrarie ha illuminato una verità più profonda: il destino della democrazia e della dittatura spesso dipende da come è posseduta la terra, chi controlla il surplus e quali coalizioni si formano attorno alla produzione agricola.
Robert Brenner aggiunge ulteriore peso: il capitalismo non nasce solo dall’innovazione, ma dalla violenta riorganizzazione delle relazioni di classe e di proprietà della terra. E la prospettiva di world-ecology di Jason W. Moore insiste che la natura non è uno sfondo—è incorporata nella stessa logica dell’accumulazione. Il progresso, in questa luce, non è un arco ascendente: è una campagna di marketing per lo spossessamento.
Sickening Profits traccia i legami tra le principali società di gestione patrimoniale—BlackRock, Vanguard, State Street—e i settori interconnessi di sementi, chimica, trasformazione alimentare e farmaceutica. Queste società non si limitano a investire. Si sincronizzano.
Il risultato è un sistema in cui cibo ultra-processato e chimicamente intensivo degrada la salute; i giganti farmaceutici rispondono con trattamenti; e le società di investimento traggono profitto da entrambi i lati. La complicità è intrecciata in questo circuito attraverso fondi pensione e canali di investimento sovrano, legando il benessere dei lavoratori alle stesse strutture di subordinazione che erodono la salute pubblica e l’integrità ecologica.
Questo non è un difetto. È la logica del sistema, resa visibile. Come avvertiva Marx nella sua teoria della frattura metabolica, il capitalismo rompe lo scambio organico tra esseri umani e natura, degradando sia il suolo che la società nella ricerca del surplus.
Power Play: The Future of Food esplora come la prossima fase dell’agri-capitalismo (che sta forse mutando in una sorta di tecno-feudalesimo) sia digitale. Agricoltura di precisione, diagnostica AI, registri fondiari su blockchain, editing genetico—questi non sono strumenti neutrali. Sono strumenti di recinzione. Privano i contadini di competenze, centralizzano le decisioni e consolidano il controllo su piattaforme proprietarie.
Le fantasie ecomoderniste promettono che la tecnologia separerà la crescita dal danno. Ma queste tecnologie rafforzano le dinamiche estrattive, incentivano la monocoltura e trasformano i contadini in nodi di dati. L’intensificazione tecnologica non democratizza il sistema—lo de-democratizza.
Tuttavia, ci sono controcorrenti. Bhaskar Save, il “Gandhi dell’agricoltura naturale”, ha dimostrato che l’abbondanza non deve necessariamente venire a scapito dell’integrità. La sua fattoria non era solo produttiva—era sacra. Come Gandhi, Save credeva che la vera autosufficienza cominci dalla terra. I suoi metodi non erano solo agronomici—erano etici, spirituali e politici.
In Hind Swaraj (1909), Gandhi criticava la civiltà industriale occidentale come una “magia nera” che idolatra velocità, macchinari e consumo. La sua visione di swaraj—autogoverno radicato nella località, nella moderazione e nell’interdipendenza—rimane un’alternativa radicale alla logica estrattiva della modernità.
La terra non è una risorsa, ma un bene comune spirituale—una matrice vivente di memoria, cultura e identità, non il feudo digitale di Bayer. Degradare la terra significa separare un popolo dalla propria cosmologia. La resistenza, dunque, non è solo materiale—è metafisica.
Eppure, questo sistema non è difeso solo dalle corporation. Viene legittimato dalle istituzioni. Alcuni dipartimenti ben finanziati o accademici di università come Florida e Saskatchewan e l’Alliance for Science della Cornell producono ricerche sostenute dall’industria che ripuliscono le argomentazioni dell’agrobusiness. Carieristi in camice da laboratorio e nelle aule universitarie—comodamente inseriti e protetti a livello istituzionale—servono come ala intellettuale dell’agri-capitalismo. Non studiano il sistema. Lo proteggono, soprattutto dai loro pulpiti sui social media—se non ogni ora, certamente ogni giorno.
I Diggers dell’Inghilterra del XVII secolo, guidati da Gerrard Winstanley, avevano compreso che la terra è la base della libertà. Il loro appello a reclamare i beni comuni non era simbolico—era rivoluzionario. Oggi, il loro spirito vive in ogni scambio di semi, in ogni occupazione di terre, in ogni atto di mutuo soccorso che sfida la logica dell’estrazione. Avevano capito che la recinzione è l’architettura del dominio. Invocare i Diggers significa dichiarare: non saremo inquilini su un pianeta posseduto dal capitale.
Inoltre, la logica dell’agricoltura industriale non si ferma al suolo. Continua verso l’interno—nel corpo umano. Il microbioma intestinale, il “suolo interno” del corpo, viene degradato da alimenti ultra-processati, residui di pesticidi e abuso di farmaci. Così come i paesaggi esterni vengono omogeneizzati per il profitto, anche le ecologie interne lo sono. Questa non è una colonizzazione metaforica. È biochimica, politica e intenzionale.
Il potere non governa più solo attraverso il territorio e il lavoro—ora opera attraverso gli ambienti microbici, riproducendo metabolicamente le condizioni per malattie croniche e dipendenza cronica.
Reclamare il cibo non è una questione di politiche migliori. È una questione di rottura. Il modello industriale non può essere riformato verso la giustizia. Deve essere affrontato, disarmato e sostituito.
Ma questa non è solo una politica del rifiuto. È una politica del rinnovamento.
L’agroecologia non è un’alternativa di nicchia—è una pratica vivente di resistenza e rigenerazione. Mette al centro la biodiversità, la conoscenza locale e la reciprocità ecologica. Non si tratta di “scalare verso l’alto”, ma di “radicarsi verso il basso”.
L’agrarismo di Wendell Berry ci ricorda che la salute della cultura e quella del suolo sono inseparabili. Il suo appello all’affetto, alla cura e a una vita radicata nei luoghi non è nostalgia—è saggezza insorgente.
Vivere lentamente, la sovranità dei semi, l’autonomia territoriale—non sono scelte di stile di vita. Sono atti contro-egemonici. Interrompono i flussi di capitale. Affermano valori incompatibili con la logica di controllo del mercato.
E gli zapatisti? Ci ricordano che l’autonomia non è un sogno—è una pratica. Sugli altopiani del Chiapas hanno costruito un’alternativa vivente: agricoltura agroecologica, governance comunitaria ed educazione radicata nella dignità. Il loro appello per “un mondo dove stanno molti mondi” non è uno slogan. È un progetto.
Il sistema alimentare dominante non è semplicemente il risultato del potere contemporaneo—ne è l’architettura. Smantellarlo non significa solo aggiustare il cibo; significa rompere la logica civilizzatrice della modernità industriale stessa. In questo sistema, il controllo si maschera da efficienza, lo spossessamento si nasconde dietro il velo dello sviluppo e la mercificazione della vita viene venduta come progresso.
Reclamare il cibo, quindi, non è un compito tecnico—è un confronto civilizzatorio. Richiede la fine di una visione del mondo che vede la terra come proprietà, gli esseri umani come input e la natura come capitale. Smantellare il sistema alimentare significa fare spazio a un altro ordine. Non è semplicemente una rivoluzione agricola—è una rivoluzione nel modo in cui viviamo e ci relazioniamo.
Infine, questo non è un articolo accademico né un rapporto aziendale. Non c’è finanziamento dietro, nessuna istituzione a cui rispondere. Solo una voce—lucida, fuori dal coro e che parla perché il silenzio non è un’opzione.
I tre libri dell’autore citati nell’articolo sono disponibili su Figshare.
Colin Todhunter è specializzato in alimentazione, agricoltura e sviluppo ed è ricercatore associato presso il Centre for Research on Globalization di Montreal. Puoi leggere gratuitamente i suoi due libri Food, Dependency and Dispossession: Resisting the New World Order e Sickening Profits: The Global Food System’s Poisoned Food and Toxic Wealth qui. https://figshare.com/authors/Colin_Todhunter/21220973
FONTE ORIGINALE
https://off-guardian.org/2025/06/20/its-not-a-broken-system-from-food-to-development-its-a-masterpiece-of-control/
It’s Not a Broken System: From Food to Development, It’s a Masterpiece of Control
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