Resiliente verso l’abisso: la silenziosa penetrazione della NATO in Svizzera
Basato sulle rivelazioni
di Norbert Häring
Norbert Häring, in un articolo esplosivo del 23 giugno 2025, svela quanto profondamente la NATO abbia esteso la sua influenza nelle politiche civili dei governi dei suoi Stati membri e partner. Non si tratta più solo di questioni militari: settori come sanità, clima, media, infrastrutture e persino migrazione sono ora classificati come rilevanti per la sicurezza sotto l’etichetta di “resilienza”, o meglio, capacità di difesa. Il dettaglio più scottante: la NATO opera con direttive segrete. Nei Paesi Bassi, grazie a richieste di accesso alle informazioni, è emerso che i ministeri si allineano a obiettivi NATO segreti senza coinvolgere i parlamenti. Häring dimostra come, sotto la copertura della “resilienza”, si rischi una progressiva erosione della democrazia. E la Germania? Vi partecipa. E la Svizzera?
La Svizzera aderisce all’agenda di resilienza della NATO. Punto.
Ufficialmente, la Svizzera si dichiara “neutrale”. Ma di fatto, è già a bordo della nave NATO.
Dal 2023 è in corso il cosiddetto Individually Tailored Partnership Programme (ITPP), un programma di cooperazione su misura con la NATO. Il nome sembra quello di un noioso abbonamento sanitario, ma in realtà è una porta d’accesso per un’influenza strategicamente motivata su settori chiave della politica interna svizzera.
L’ITPP specifica chiaramente i temi coinvolti: cybersicurezza, protezione delle infrastrutture critiche, gestione sanitaria, comunicazione in situazioni di crisi e, punto particolarmente delicato, lotta alla disinformazione. A proposito di quest’ultimo: chi decide cosa sia disinformazione? Esatto, le stesse istituzioni che hanno il potere di dichiarare scomode verità come una minaccia.
Nell’ambito dell’ITPP, la Svizzera non solo fornisce dati agli organismi NATO, ma partecipa attivamente a esercitazioni civili-militari, seguendo metodi e dottrine direttamente derivati dalla NATO. Quella che un tempo era un’armata di milizia indipendente si sta trasformando, passo dopo passo, in un ingranaggio compatibile con l’architettura di sicurezza transatlantica. Le esercitazioni coprono scenari che vanno da attacchi informatici alle infrastrutture critiche a situazioni di disinformazione e migrazione. Tutto ciò che serve per proclamare la “resilienza” come nuovo imperativo di sicurezza. L’obiettivo non è altro che una società pronta alla guerra, un concetto che merita di essere assaporato due volte prima di rendersi conto che non si tratta più di difesa, ma di una trasformazione sociale silenziosa.
Accordi segreti? Il dibattito è già in corso.
Quello che un tempo il generale Henri Guisan gestiva in segreto durante la Seconda Guerra Mondiale trova oggi una sorprendente rinascita: le cosiddette “puntazioni”. Si tratta di intese segrete, non vincolanti, generalmente di natura militare, che regolano in anticipo situazioni di crisi o guerra senza controllo parlamentare.
È storicamente documentato che, a partire dall’autunno del 1939, Guisan negoziò segretamente con lo Stato Maggiore francese, stabilendo che in caso di emergenza parti dell’esercito svizzero sarebbero state poste sotto il comando francese, un’alleanza tacita per proteggere il Paese da una possibile invasione tedesca. Queste intese rimasero in gran parte sconosciute al Consiglio Federale e al Parlamento, emergendo solo successivamente grazie a documenti dagli archivi francesi.
Secondo il rapporto della commissione di studio guidata da Viola Amherd, pubblicato nell’agosto 2024 sul SonntagsBlick, la Svizzera sta nuovamente discutendo di tali accordi “discreti” con la NATO. Al centro c’è la questione di come la Svizzera si comporterebbe in caso di crisi, ad esempio in caso di un attacco informatico a un Paese NATO o di sabotaggi alle infrastrutture critiche. Ufficialmente, si negano colloqui con il quartier generale della NATO. Ma informalmente, è chiaro: la NATO si aspetta che la Svizzera non rappresenti un punto debole, specialmente in settori come energia, finanza o comunicazione.
Il trucco del 5%:
Come la NATO si insinua nella politica interna
Al vertice NATO del 24-25 giugno 2025 a L’Aia, è stato deciso un nuovo obiettivo: gli Stati dovranno destinare il 5% del loro PIL alla “difesa”. Ma il diavolo sta nei dettagli: il 3,5% è per armamenti tradizionali, l’1,5% per “infrastrutture rilevanti militarmente”. E cosa significa? Tutto ciò che fa comodo alla NATO: reti elettriche, comunicazioni digitali, media, persino fact-checker. Se si rende la rete elettrica nazionale “NATO-compatibile” o si finanziano piattaforme per combattere la disinformazione, questo conterà come spesa militare.
Ciò chiarisce una cosa: la NATO non solo definisce cosa sia un rischio, ma stabilisce anche come i governi debbano reagire: con fondi, leggi e strutture. Non più con carri armati, ma con direttive politiche. Un sistema di incentivi che si insinua profondamente nei processi decisionali nazionali.
La Svizzera, come agisce davvero
Mentre in pubblico si parla di neutralità, dietro le quinte si procede con sincronizzazioni, adattamenti e allineamenti alle direttive NATO. Questo è evidente soprattutto nell’infrastruttura di sicurezza, che sotto la guida del Dipartimento della difesa (DDPS) è stata progressivamente riorganizzata: cybersicurezza, scorte, preparedness per le crisi e gestione della comunicazione non sono più solo temi nazionali, ma seguono lo script della “resilienza” definito nei documenti NATO.
L’Ufficio federale per la cybersicurezza (BACS), ufficialmente responsabile della protezione e difesa nello spazio digitale, funge di fatto da interfaccia tra amministrazione, economia e partner internazionali di sicurezza. Non si occupa solo di prevenzione interna, ma anche di integrazione in reti multilaterali, soprattutto là dove si identificano “minacce ibride”. Termini come “resilienza sociale”, “infrastrutture critiche” e “comunicazione strategica” non nascono più a Berna, ma rispecchiano il vocabolario dell’agenda NATO.
Conferenze, studi e documenti strategici come la “Strategia nazionale per la cybersicurezza” o il nuovo dispositivo di sicurezza per la protezione della popolazione ancorano sempre più profondamente questi standard nel Paese, senza che vi sia stato un ampio dibattito democratico. Non è un caso che tali programmi coincidano spesso con le pubblicazioni NATO: è l’espressione di una volontà politica di avvicinamento silenzioso. Una strategia di resilienza a doppio fondo: collaborativa e “neutrale” verso l’esterno, compatibile con la sicurezza transatlantica all’interno.
Il grande dibattito democratico su tutto questo? Assente. All’ombra del Comitato per la Resilienza della NATO
Sebbene la Svizzera non sia ufficialmente membro della NATO, potrebbe essere coinvolta nelle attività del NATO Resilience Committee (RC). Questo organismo, istituito nel 2022, è considerato l’istanza strategica suprema per tutte le questioni di resilienza civile all’interno dell’Alleanza. Coordina l’attuazione degli obiettivi di resilienza definiti nell’Strengthened Resilience Commitment, nell’Agenda NATO 2030 e nel Concetto Strategico 2022, traducendoli in politiche nazionali.
Il RC potrebbe quindi avere un impatto indiretto anche in Svizzera, ad esempio attraverso l’implementazione di concetti sviluppati strategicamente: resilienza dell’approvvigionamento energetico, lotta alla disinformazione, mantenimento delle funzioni governative in tempi di crisi, sicurezza alimentare o mobilità in caso di difesa. Anche la tanto citata “resilienza sociale”, intesa come sostegno o acquiescenza della popolazione a politiche conformi al governo, rientra probabilmente negli obiettivi di questo comitato.
Poiché il RC collabora regolarmente non solo con gli Stati membri, ma anche con i Paesi partner, è plausibile che la Svizzera sia coinvolta attraverso delegazioni ufficiali o gruppi di lavoro tematici. Questo potrebbe avvenire, ad esempio, tramite l’Ufficio federale della protezione della popolazione (BABS), l’Ufficio federale per l’approvvigionamento economico del Paese (BWL) o il BACS. La Svizzera supporta inoltre il Euro-Atlantic Disaster Response Coordination Centre (EADRCC) subordinato al RC, il che potrebbe indicare una cooperazione operativa, specialmente in esercitazioni, analisi situazionali o coordinamenti tecnici.
Il fatto che il RC gestisca sei unità di pianificazione altamente specializzate in settori come comunicazione, energia, trasporti, sanità, alimentazione e protezione della popolazione suggerisce che le strutture svizzere esistenti, anche senza un’adesione formale alla NATO, potrebbero essere adattate a determinati standard o priorità. Attraverso formati di partenariato, come la plenaria annuale a livello di direttori politici o la partecipazione a progetti specifici, la Svizzera potrebbe essere stata gradualmente allineata a un’agenda che, pur non essendo ufficialmente “vincolante”, ha un effetto coordinativo nella pratica. Chissà?
Se ciò fosse vero, si confermerebbe un tema ricorrente nella politica di sicurezza attuale: la Svizzera segue obiettivi strategici a cui non ha partecipato nella loro definizione, ma ne assume l’attuazione, in silenzio, passo dopo passo, senza dibattito pubblico.
Pandemia come test di resilienza?
Particolarmente significativo è il ruolo del Euro-Atlantic Disaster Response Coordination Centre (EADRCC), subordinato al Comitato per la Resilienza. Fondato nel 1998 e con sede presso la NATO a Bruxelles, questo centro coordina l’assistenza internazionale in caso di catastrofi nell’area euro-atlantica, inclusi disastri naturali, incidenti CBRN (chimici, biologici, radiologici, nucleari), attacchi terroristici e, come esplicitamente indicato, crisi sanitarie.
Non è azzardato ipotizzare che l’EADRCC possa aver avuto un ruolo di coordinamento nella gestione della pandemia di Covid-19, o meglio, nella risposta globale orchestrata ad essa. Il centro organizza regolarmente seminari, esercitazioni su larga scala e analisi situazionali con membri e partner della NATO, inclusa la Svizzera. Se l’EADRCC avesse fornito impulsi operativi o agito come piattaforma logistica durante la “plandemia”, ciò indicherebbe che la pandemia non è stata trattata solo come una questione sanitaria, ma anche come uno scenario di sicurezza, forse persino come un test di resilienza sociale.
Un tale scenario spiegherebbe perché in molti Paesi occidentali la risposta al Covid-19 è stata sorprendentemente sincronizzata, con lockdown, strategie di comunicazione e gestione centralizzata tramite stati di emergenza. Se strutture come l’EADRCC avessero effettivamente operato in background, sarebbe un ulteriore indizio che il passaggio dalla gestione civile delle crisi a una governance strategico-militare è già avvenuto. Silenziosamente, senza controllo parlamentare, ma con un impatto globale.
Neutrale sulla carta, transatlantica nel motore
Chi pensa che la Svizzera sia solo un’osservatrice passiva si sbaglia di grosso. La fase dell’esitazione è finita. Ciò che un tempo si limitava a esercitazioni congiunte, standard tecnici o coordinamenti occasionali è oggi radicato nel DNA dell’architettura di sicurezza svizzera. La NATO ha perfezionato quei meccanismi sottili che permettono di influenzare gli Stati senza bisogno di firme ufficiali: soft power, terminologie standardizzate e documenti di “partenariato” volutamente vaghi per evitare proteste.
“Resilienza” è la nuova parola d’ordine in questi ambienti. Un codice strategico che legittima militarmente quasi ogni azione politica. Ciò che un tempo era civile, oggi è rilevante per la difesa: politica energetica, sistemi sanitari, strutture di comunicazione, migrazione, media: tutto è un potenziale campo di battaglia. Tutto è rilevante per la sicurezza. E, nel gergo NATO, una questione di vertice.
Il vero scandalo: nessuno ha mai votato per questo. Nessun parlamento ha mai deciso consapevolmente che la Svizzera dovesse orientarsi a un’agenda militare che interferisce profondamente nelle questioni interne. Succede e basta. In coordinazione silenziosa. E con una velocità che elude ogni riflesso democratico.
Perché, una volta definito cosa sia un rischio, e se questa definizione non proviene più da rappresentanti eletti ma da organismi militari internazionali, il rapporto tra governati e governanti si capovolge. La sicurezza diventa la verità suprema. E tutto il resto – diritti fondamentali, trasparenza, autodeterminazione – diventa negoziabile.
Non siamo più “non lontani” da una società civile guidata dalla NATO. Ci siamo dentro. Solo che nessuno lo nota. Perché non ci sono carri armati, né truppe in marcia, né dichiarazioni ufficiali. La trasformazione avviene in silenzio. Con metodo. E con l’eleganza subdola di un’agenda che non cerca consenso, ma efficacia sistemica.
Non ci sono più domande aperte. Perché ciò che è iniziato come un partenariato è oggi un’integrazione funzionale. Senza adesione formale, ma con il massimo impatto. La Svizzera rispetta gli standard NATO, pensa in categorie NATO, pianifica in scenari NATO. E lo chiama ancora neutralità.
Di fatto, la Svizzera è oggi un avamposto NATO con vista sulle Alpi, ma senza diritto di codecisione. Un Paese che si consegna volontariamente a una dipendenza strategica, le cui regole sono scritte altrove. E il più grande rischio per la sicurezza? Non è più la Russia, ma la perdita della propria sovranità.
FONTE https://www.vereinwir.ch/resilient-in-den-abgrund-die-stille-nato-durchdringung-der-schweiz/
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Daniele Ganser è uno storico svizzero specializzato in storia contemporanea dal 1945 e politica internazionale. Le sue principali ricerche si concentrano sugli studi per la pace, la geostrategia, la guerra segreta, i conflitti per le risorse e la politica economica. Il Dr. Ganser discute dell’Operazione Gladio, la missione stay-behind dell’esercito segreto della NATO per continuare a combattere in caso di una possibile invasione sovietica. L’esercito segreto e le armi nascoste al di fuori del controllo pubblico hanno permesso atti di violenza e terrorismo in Europa per garantire che le forze politiche “corrette” mantenessero il potere.
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