Di Antonio Mazzeo

Due milioni di test sierologici su base volontaria per il personale docente e amministrativo di tutte le scuole d’Italia. Uno screening di massa senza precedenti nella storia che il governo Conte-Azzolina-Speranza ritiene necessario per “contrastare e contenere l’emergenza COVID-19” ma che solleva perplessità nel mondo scientifico e tra gli stessi operatori scolastici per la non comprovata attendibilità delle indagini e l’incerta protezione dei dati personali sensibili che saranno raccolti e sistematizzati.

L’esecuzione dei test sierologici è stata demandata ai medici generici e ai laboratori delle aziende sanitarie locali. I dati relativi al loro esito sono trasmessi ai Dipartimenti di prevenzione delle ASL che li comunicano poi alla Regione di appartenenza, la quale – a sua volta – li trasmette in forma aggregata all’Istituto Superiore di Sanità (ISS)”, si legge nell’apposita circolare del Ministero della Salute del 7 agosto 2020. Una procedura complessa e con molteplici attori in campo che rende possibile l’accesso ad una straordinaria mole di dati scientifici e statistici da parte di soggetti terzi con fini e interessi economici (transnazionali e industrie farmaceutiche) o, peggio ancora, militari.

Non farà certo piacere al personale scolastico venire a conoscenza che proprio l’Istituto Superiore di Sanità sta realizzando in questi mesi un progetto di sviluppo dei kit diagnostici rapidi per il dosaggio di anticorpi e antigeni specifici del coronavirus nei fluidi biologici, con un finanziamento dell’agenzia Science for Peace and Security della NATO, l’onnipotente organizzazione militare internazionale del Nord Atlantico. Anche questo progetto, secondo l’ISS, punta a “contribuire a limitare la diffusione della SARS-CoV-2 fornendo nuovi strumenti per la diagnosi rapida che possono essere utilizzati in contesti su larga scala, grazie ad un approccio multidisciplinare con esperti del settore dell’immunologia, della virologia e della biologia molecolare”. Alla sua realizzazione collaborano l’equipe di medici del Policlinico Universitario di Tor Vergata diretto dal prof. Massimo Andreoni e il gruppo di ricerca del prof. Gennaro De Libero dell’ospedale universitario di Basilea (Svizzera).

A coordinare il progetto ISS-NATO è stato chiamato il responsabile del reparto d’immunologia dell’Istituto di Sanità, Roberto Nisini, dal 1984 al 1997 ricercatore militare dell’Aeronautica italiana e dal febbraio 2020 responsabile scientifico del programma Real Biodefence per la realizzazione di “vaccini a mRNA inserito in liposomi asimmetrici nella difesa da agenti biologici”. Quest’ultimo progetto è stato avviato grazie a un accordo di collaborazione tra l’ISS e il Ministero della Difesa; approvato dal consiglio d’amministrazione dell’ISS il 19 novembre 2019, avrà una durata di 12 mesi e la spesa di 65.670 euro.

I fluidi biologici analizzati per i test diagnostici saranno il sangue ma anche la saliva e le secrezioni naso-faringee da tampone e il risultato si potrà conoscere in un lasso di tempo variabile da pochi minuti a un’ora”, ha spiegato il dottor Roberto Nisiti il 5 maggio 2020 presentando il progetto dei kit diagnostici finanziato dalla NATO. “Il test sarà strumentale per lo screening iniziale in un triage o in una comunità. I kit diagnostici consentiranno un rilevamento più rapido dei SARS-CoV-2 rilasciati nei fluidi corporei umani nell’ambiente e l’identificazione sensibile della risposta immunitaria agli antigeni strutturali. Gli aspetti innovativi di questo progetto includono la possibilità di rilevare e misurare sia le immunoglobuline umane G (IgG), A (IgA) e M (IgM) specifiche per componenti strutturali del SARS-CoV-2 nel siero, che gli antigeni virali nei biofluidi”.

Sempre secondo i ricercatori dell’ISS, saranno prodotte proteine strutturali ricombinanti codificate e anticorpi monoclonali (mAb) specificamente in grado di riconoscere queste proteine. “La procedura di immunizzazione che verrà utilizzata per generare anticorpi monoclonali fornirà anche un modello preclinico di immunogenicità di un vaccino anti-COVID-19”, ha aggiunto Nisiti. “L’identificazione di anticorpi anti-virus potrebbe rappresentare un primo passo nello sviluppo di immuno-terapie basate sulla somministrazione di anticorpi per il trattamento di pazienti infetti”.

Il progetto che abbiamo lanciato nell’ambito dello Science for Peace and Security Programme della NATO è un esempio eccellente degli sforzi di ricerca globale della comunità per combattere il COVID-19”, ha dichiarato Antonio Missiroli, vicesegretario dell’Alleanza Atlantica con delega per le sfide delle emergenze alla sicurezza. “Esso rafforza anche l’impegno della NATO per la resilienza e la preparazione civile delle nazioni alleate e partner in tempi di crisi. Anche se i risultati attesi da questo progetto sono estremamente rilevanti per l’odierna situazione mondiale, noi attendiamo con ansia l’impatto che esso avrà a lungo termine in vista di una risposta internazionale contro i virus e i patogeni che si generano in natura o contro quelli creati dall’uomo”.

Anche Philippe Brandt, ambasciatore svizzero in Belgio e capo missione della confederazione elvetica presso il Comando supremo della NATO ha enfatizzato il nuovo progetto di ricerca ISS-NATO. “Per la Svizzera essere associata al Programma Partnership for Peace significa poter condividere le capacità per migliorare la sicurezza in un ambito multilaterale”, ha dichiarato il diplomatico. “Con alcune università di massimo livello, centri scientifici e una forte relazione tra il settore privato e la ricerca, la Svizzera è ben posizionata per partecipare agli sforzi della comunità internazionale per combattere il COVID-19”. Come dire la privatizzazione della ricerca accademica a fini militari.

Lo Science for Peace and Security Programme è uno dei più importanti programmi di partenariato della NATO a supporto della ricerca scientifica per “affrontare le sfide della sicurezza del 21° secolo”, in particolare nei settori della cyber defence, delle tecnologie avanzate, dell’antiterrorismo, della sicurezza energetica e della “difesa contro agenti chimici, biologici, radiologici e nucleari”. Il programma SPS sovvenziona progetti pluriennali, seminari di ricerca, corsi di formazione e istituti di studio avanzati, reti di esperti internazionali e scambi di competenze e know-how tra le comunità scientifiche della NATO e dei paesi partner.

Dopo lo scoppio della pandemia da coronavirus, buona parte dei fondi e degli interventi sono stati indirizzati alla ricerca sul COVID-19, con finalità dichiaratamente di ordine strategico-militare. “Abbiamo ricevuto dalla comunità scientifica oltre 40 proposte di studio per individuare le risposte che devono essere assunte contro questa nuova emergenza”, riporta l’ufficio stampa della NATO in un comunicato del 10 luglio scorso. “Si sta investigando per avere una migliore conoscenza sulla disinformazione che circola sulla pandemia e su come contrastarla; su come assicurare le migliori condizioni sanitarie alle forze armate in caso di pandemia; su come rafforzare l’uso della tecnologia per addestrare i leader militari durante gli interventi in pandemia; sulle lezioni apprese dal COVID-19 per i sistemi di difesa nazionali; sulla dimensione etica del supporto militare alle attività sanitarie in pandemia”.

Sarebbero oltre 6.000 gli scienziati coinvolti dall’Alleanza Atlantica nei programmi sul coronavirus, a cui si aggiungono pure i ricercatori del Centre for Maritime Research and Experimentation (CMRE) di La Spezia, centro d’eccellenza NATO per la realizzazione e sperimentazione di nuovi sistemi d’arma navali e subacquei. 

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