Greenwashing è un termine inglese relativamente nuovo, che unisce il concetto di “green” (verde inteso in senso ecologico) e di “whitewashing” (dissimulare, nascondere, riabilitare) per indicare la tendenza da parte di aziende e qualsiasi tipo di società o organizzazione a pubblicizzare i propri presunti comportamenti ecosostenibili ed attenti all’ambiente  per  risultare, agli occhi dei consumatori,(ndr elettori) attenti allo sviluppo sostenibile.
In realtà spesso le aziende che attuano politiche di greenwashing hanno il bisogno di nascondere, dissimulare per l’appunto,  scelte fortemente incompatibili con la sostenibilità ambientale o addirittura comportamenti che mettono a repentaglio la salute del pianeta…
 Sui casi di greenwashing 
ci viene in aiuto l’esperienza di Fred Pearce sul Guardian che ha da sempre denunciato proprio questo ambientalismo di facciata... (1)

Una delle prime pronunce di condanna relative al greenwashing  fu contro la Snam nel 1996. Altre sentenze seguirono, come quelle contro le acque minerali San Benedetto Ferrarelle, o contro la Coca Cola.

Un uso cinico dei temi ambientali, cioè l’ambientalismo usato come slogan conveniente, crea tutt’altro che un mondo migliore e più “verde”.

Dalla natura al green, l’evoluzione della comunicazione ambientale 

Secondo Giovanna Cosenza

Giovanna Cosenza è professore associato presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna, dove insegna Semiotica e Semiotica dei nuovi media per la laurea triennale in Scienze della Comunicazione, Semiotica dei consumi per la laurea Magistrale in Semiotica, di cui è stata presidente dal 2009 al 2012. Dal 2001 è titolare di corsi fondamentali presso l’Alma Graduate School dell’Università di Bologna: negli ultimi anni ha tenuto il corso di Analisi di testi e quello di Comunicazione efficace per il Master in Marketing e Comunicazione.

Come free-lance svolge attività di consulenza e formazione per diversi Centri di formazione professionale, enti pubblici, aziende. Fra le sue pubblicazioni più recenti: le monografie SpotPolitik. Perché la «casta» non sa comunicare (Laterza, 2012), Semiotica dei nuovi media (Laterza 2010), e la cura del volume Semiotica della comunicazione politica (Carocci 2007). Cura inoltre un blog che si intitola Dis.amb.iguando. Con lei abbiamo parlato di alcuni aspetti della comunicazione ambientale in Italia, come è cambiata negli ultimi anni e quali possono essere i suoi limiti.

Sostenibilità e green sono oggi i due termini usati più di frequente per parlare di ambiente. Come si è aggiornato ed evoluto negli anni il vocabolario usato per raccontare l’ambiente?

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una evoluzione continua delle parole usate per identificare i temi ambientali: dal termine “paesaggio” si è passati ai generici “natura” e “ambiente”, grande successo ha avuto fino a poco tempo fa anche la parola “ecologia”.  Adesso sono molto diffusi i termini “green”, “sostenibilità” e “bio”.  Dietro questa evoluzione dei termini possiamo identificare due grandi direttive del cambiamento lessicale.

Innanzitutto il termine “sostenibilità” denota l’uso di un linguaggio economico che collega implicitamente anche l’ambiente con la sfera del risparmio. Questa tendenza era già in atto da tempo ma con la crisi il tema economico diviene ancora più intensivo nel linguaggio, ponendo grande accento sul denaro. Allo stesso tempo l’uso del temine inglese “green” ci dice non tanto che nell’italiano usiamo sempre più frequentemente parole inglesi, ma che dal nostro quadro locale vogliamo inserirci, anche per i temi ambientali, in una visione più generale e globale. “Green” indica quindi la consapevolezza della globalità di un tema.

Anche le modalità con cui si svolgono le campagne di sensibilizzazione sono cambiate nel corso del tempo?

Molte campagne di sensibilizzazione odierne sui temi ambientali puntano sulla partecipazione attiva, sul fare qualcosa di concreto più che sulla semplice informazione, su allarmi e generici richiami all’attenzione che sono stati i punti di forza fino a qualche tempo fa. L’orientamento al fare va di pari passo con l’uso dei nuovi media e di internet in particolare. La comunicazione globale è senza dubbio oggi foriera di cambiamenti effettivi e il “fare” è diventato uno dei tormentoni del nostro tempo.

Questo paradigma lo si riscontra in vari tipi di discorsi,  per esempio anche in quello politico, non necessariamente solo nel discorso ambientale. Il problema che nasce subito dopo è però come raggiungere concretamente la partecipazione, perché essa implica un reale cambiamento delle nostre azioni quotidiane. L’idea che sta alla base di tutto è che il fare generi un cambiamento positivo perché masse di persone che fanno qualcosa, anche ora per ora e nei settori più svariati e marginali, sono in grado di cambiare il mondo in cui viviamo. Purtroppo però, come ci insegnano ad esempio i social network, la partecipazione è spesso più detta che fatta. In questo senso c’è ancora molta strada da percorrere, non solo nell’ambito della comunicazione di massa.

Si assiste a un proliferare di giornate e settimane mondiali ed europee dedicate a temi specifici. Molte di queste iniziative hanno al centro temi ambientali, basti pensare alla mobilità sostenibile, agli alberi, alla terra, ai rifiuti, ecc… Cosa pensa di questa strategia per porre all’attenzione del pubblico i più svariati argomenti?

Anche in questo caso è un bene se le giornate internazionali servono ad attirare l’attenzione su un problema, ma tra il dire e il fare la distanza va poi colmata realmente. È diffusa la consapevolezza che non basti impegnarsi su una singola azione per cambiare un sistema come quello ambientale. La celebrazione di un tema deve perciò sempre essere un mezzo, non un fine, per passare ad un impegno costante e ad una comunicazione permanente.

Entra però in campo anche qui qualcosa che va oltre il mero tema dell’ambiente: si tratta del sistema educativo, composto dalla scuola e dalle famiglie. Le campagne, la sensibilizzazione devono entrare in questo sistema per essere efficaci e fare diventare certi comportamenti una pratica quotidiana. Ci si sta muovendo in questa direzione ma si devono ancora fare i conti con i problemi del sistema educativo del nostro Paese.

Tutto ciò che ruota attorno all’ambiente sembra oggi “tirare” moltissimo. Non crede che se il green diventa una moda possa finire col far perdere al tema della difesa dell’ambiente la profondità che meriterebbe?

Il fenomeno che incarna questo rischio concreto è il cosiddetto green washing, cioè il “lavaggio nel verde” operato da marchi commerciali che vogliono far passare per ecologici prodotti che magari non hanno le caratteristiche per essere definiti green. Il green washing ha però due facce, un recto e un verso.

Da un lato, il verso, mette in luce l’aspetto più superficiale e passeggero, che possiamo anche definire di moda, del tema green. In questo caso non si dà sostanza e profondità ai temi ecologici e ciò mal si concilia con la problematicità. Ma il recto del green washing sta proprio nell’identificare nei temi greenuna moda: se tanti si sforzano di seguire una moda il risultato è comunque il cambiamento dei comportamenti.

Se anche le aziende e le multinazionali si abituano a prendere in considerazione aspetti green nella loro produzione, magari inizialmente anche in maniera superficiale, non è detto che in tempi lunghi non si abbia un effetto positivo. Va anche detto che l’attenzione dei consumatori e dei movimenti ambientalisti su questo tema è molto alta ed è quindi più facile verificare se il comportamento  green professato è solo di superficie o di sostanza.

Chi mente può essere scoperto con relativa facilità, con conseguenze sull’immagine del proprio prodotto e del proprio marchio. Un particolare ambito in cui questo fenomeno è più evidente è quello del mercato dei prodotti biologici: bio e sostenibilità sono concetti entrati nel marketing delle aziende e possono essere sfruttati – in alcuni casi sicuramente lo sono – per fare più soldi. Anche qui però non mi concentrerei solo sui possibili aspetti negativi: un mondo senza bio sarebbe sicuramente un mondo peggiore, più sporco e meno sensibile all’ambiente. È quindi un processo lungo, faticoso e sistemico quello che si sta attraversando, in cui non si dovrà mai lasciar cadere nemmeno per un attimo l’attenzione.

Che impressione si è fatta sulla qualità del discorso pubblico in Italia sul tema dell’ambiente?

Rispetto ad altri Paesi il discorso pubblico è cresciuto con una certa velocità negli ultimi anni, senza comunque raggiungere il livello dei Paesi più avanzati in materia, come sono ad esempio quelli del nord Europa. Il problema che sconta anche il discorso pubblico sull’ambiente in Italia è lo stesso di tanti altri settori della nostra vita sociale: non è tanto un problema di quantità ma di qualità. Continuiamo a vivere una estrema lentezza nel sistema educativo, nell’economia, nelle politiche sociali.

Finché occuperemo posizioni arretrate in tutte le graduatorie (si pensi non solo a quelle economiche, ma anche quelle relative al gender gap o al livello di corruzione nella vita pubblica, alla presenza di pratiche criminali, ecc…) il cambiamento sarà molto difficile. Nel settore ambientale, come in altri, è inoltre sotto gli occhi di tutti la mancanza di omogeneità tra zone del Paese, basti pensare alla raccolta dei rifiuti. Siamo un sistema piccolo con problemi grandi, che vanno dall’economia alla cultura politica e alla cultura in senso lato. È in gioco qui il tema del modello di società che abbiamo in mente.

Cambieremo davvero, anche nell’ambiente, quando smetteremo di retrocedere in molti aspetti, quando fermeremo questa corsa all’indietro. Fino a quel momento non si può scindere il discorso pubblico sull’ambiente da ogni altro discorso pubblico, fatto di tante parole ma molti meno fatti. FONTE

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