di Alfred W. McCoy – 11 settembre 2017
[Questo testo è stato adattato e ampliato dal nuovo libro di Alfred W. McCoy ‘In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of U.S. Global Power’ [Nell’ombra del secolo statunitense: l’ascesa e il declino del potere globale statunitense]]
Quasi un secolo fa, il 7 gennaio del 1929, i lettori di giornale di tutti gli Stati Uniti furono catturati da un fumetto nuovo di zecca, Buck Rogers in the 25th Century [Buck Rogers nel venticinquesimo secolo]. Offriva al paese le prime immagini di raggi della morte, esplosioni atomiche e viaggi interplanetari dell’era spaziale.
“Avevo vent’anni”, raccontava ai lettori nella sua primissima striscia il veterano della prima guerra mondiale Anthony “Buck” Rogers, “ed esploravo i livelli inferiori di una miniera abbandonata vicino a Pittsburgh … quando improvvisamente … un gas mi fece perdere conoscenza. Ma non morii. Quel gas speciale … mi mantenne in animazione sospesa. Alla fine un altro spostamento degli strati fece entrare aria fresca ed io ripresi conoscenza”.
Barcollando fuori da quella miniera egli si trova nel venticinquesimo secolo, circondato da guerrieri volanti che si scambiano colpi di armi a raggi. Un’astronave mongola sopra di lui lo individua prontamente sul suo “visore televisivo” e gli spara contro un “raggio disintegratore”. E’ salvato da morte certa da una guerriera volante di nome Wilma che gli spiega come è avvenuto tutto ciò.
“Molti anni fa”, dice, “i Rossi Mongoli del Deserto del Gobi conquistarono l’Asia dalle loro grandi astronavi mantenute in volo da Raggi Antigravità. Distrussero l’Europa e poi si rivolsero contro gli Stati Uniti amanti della pace”. Mentre i loro raggi disintegratori facevano bollire gli oceani, cancellarono la marina statunitense e demolirono Washington D.C. in solo tre ore, “il governo cessò di esistere e le folle, ridotte allo stato selvaggio, si aprirono a forza la via fuori dalle città per sparpagliarsi e nascondersi in campagna. Fu la morte di una nazione.” Mentre i Mongoli ricostruivano 15 città come “centri di super magnificenza scientifica” sotto il loro malvagio imperatore, gli statunitensi conducevano “vite impaurite nelle foreste” fino a quando la loro “immortale fiamma della libertà” li guidò a riconquistare la “scienza perduta” e “a combattere ancora una volta per la libertà”.
Dopo un anno di tali fumetti pieni dei peggiori stereotipi asiatici dell’inizio del ventesimo secolo, proprio mentre Wilma si avvinghia all’astronave del Vicerè Mongolo mentre sfreccia attraverso il pacifico, compare alto un cielo un misterioso globo metallico e spara raggi della morte, mandando la nave mongola “sibilante nel mare”. Con la sua cintura antigravità “inerziale” l’intrepida Wilma si tuffa in sicurezza nelle onde solo perché un gigantesco braccio metallico uscito dal globo misterioso la trasporti a bordo per rivelare – “Orrore! Che esseri strani!” – dei Marziani!
Con quella striscia Buck Rogers in the 25th Century passò tra combattimenti limitati alla Terra contro asiatici connotati razzialmente a guerre spaziali contro mostri di altri pianeti che nei successivi settant’anni avrebbero portato la striscia in libri a fumetti, trasmissioni radiofoniche, lungometraggi, serie televisive, videogiochi e alla coscienza collettiva del paese. Avrebbe offerto visioni definenti la guerra spaziale per generazioni di statunitensi.
Ritorno al ventunesimo secolo
Ora immaginiamoci di ritorno nel ventunesimo secolo. E’ il 2020 e una “tripla cupola” statunitense di pervasivi sistemi di sorveglianza e droni armati già riempie i cieli dalla stratosfera inferiore all’esosfera. Può trasportare i suoi armamenti dovunque sul pianeta con velocità sconcertante, far fuori satelliti nemici di comunicazioni senza preavviso o seguire biometricamente individui su lunghe distanze. E’ un prodigio dell’era moderna. Assieme al potenziale cyber-bellico avanzato del paese, è anche il sistema militare di informazioni più sofisticato mai creato e una polizza di assicurazione per il dominio globale in profondità nel ventunesimo secolo.
Questo è, di fatto, il futuro come il Pentagono lo immagina ed è in realtà sotto sviluppo, anche se la maggior parte degli statunitensi ne sa poco o nulla. Vive tuttora in un’altra era, così come Mitt Romney durante i dibattiti presidenziali del 2012 quando lamentò che “la nostra marina è oggi più piccola di quanto sia mai stata dal 1917”.
Con parole di raggelante irrisione il presidente Obama replicò: “ Beh, governatore, abbiamo anche meno cavalli e baionette, poiché la natura del nostro esercito è cambiata … la questione non è un gioco di battaglia navale, dove si contano i vascelli. La questione è quali sono le nostre capacità”. Obama poi offrì giusto un accenno di quali potevano essere tali capacità: “Dobbiamo pensare alla cyber-sicurezza. Dobbiamo parlare dello spazio”.
In effetti, operando in segreto, l’amministrazione Obama stava presiedendo a una rivoluzione nella pianificazione della difesa, spostando la nazione ben oltre baionette e corazzate alla guerra cibernetica e a un futuro armamento a tutto campo dello spazio. Dalla stratosfera all’esosfera il Pentagono oggi sta producendo una flotta di fantastiche nuove armi aerospaziali degne di Buck Rogers.
Nel 2009, avvalendosi dei progressi nella sorveglianza digitale sotto l’amministrazione Bush, Obama lanciò il Cyber Comando statunitense. Il suo quartier generale fu fissato all’interno dell’Agenzia della Sicurezza Nazionale (NSA) a Fort Meade, Maryland, e un centro di guerra cibernetica dotato di 7.000 dipendenti dell’aviazione fu stabilito presso la base aerea di Lackland, nel Texas. Due anni dopo il Pentagono passò oltre i combattimenti convenzionali su terra, aria o mare per dichiarare il cyber-spazio un “terreno operativo” sia offensivo sia difensivo. Ad agosto, nonostante il suo tentativo di vasta portata di purgare il governo di qualsiasi cosa collegata all’”eredità” di Barack Obama, il presidente Trump ha attuato il piano a lungo rimandato del suo predecessore di separare il Cyber Comando dalla NSA in uno sforzo di “rafforzare le nostre operazioni cyber-spaziali”.
E a quale fine è preparata tutta questa tecnologia? In uno studio dopo l’altro, la comunità dei servizi segreti, il Pentagono e gruppi di esperti collegati hanno unanimemente identificato la principale minaccia alla futura egemonia globale statunitense come potenza rivale con un’economia in espansione, un esercito in rafforzamento e ambizioni globali: la Cina, la patria di quegli abitanti del Deserto del Gobi che, in quella vecchia favola di Buck Rogers, distruggeranno Washington tra quattro secoli. Considerando che la preminenza economica degli Stati Uniti sta svanendo rapidamente, svolte nella “guerra informatica” potrebbero in effetti dimostrarsi la miglior scommessa di Washington per estendere ulteriormente la propria egemonia globale in questo secolo, ma non contateci, vista la storia degli armamenti tecnologici delle guerre passate.
Tecno-trionfo in Vietnam
Sin da quando il Pentagono, con le sue 17 miglia di corridoi, fu completato nel 1943, l’enorme labirinto burocratico ha presieduto a una fusione creativa di scienza e industria che il presidente Dwight Eisenhower avrebbe chiamato “il complesso industriale-militare” nel suo discorso di addio alla nazione nel 1961. “Non possiamo più rischiare improvvisazioni d’emergenza nella difesa nazionale”, disse al popolo statunitense. “Siamo stati obbligati a creare un’industria permanente degli armamenti di vaste proporzioni”, sostenuta da una “rivoluzione tecnologica” che è “complessa e costosa”. Come parte del suo personale contributo a tale complesso, Eisenhower aveva presieduto alla creazione sia dell’Agenzia Nazionale Aeronautica e Spaziale, o NASA, sia di un’unità di ricerca “ad alto rischio, alto profitto” chiamata Agenzia dei Progetti di Ricerca Avanzata, o ARPA, cui in seguito fu aggiunta al nome la specificazione “della Difesa” e divenne DARPA.
Per settant’anni questa stretta alleanza tra il Pentagono e grandi appaltatori della difesa ha prodotto una successione ininterrotta di “armi prodigio” che almeno teoricamente garantivano un margine cruciale in tutti i principali campi militari. Anche quando sconfitto o costretto a una patta, come in Vietnam, Iraq e Afghanistan, l’ambiente delle ricerche del Pentagono ha dimostrato una ricorrente resilienza che ha potuto trasformare i disastri in ulteriori progressi tecnologici.
La guerra del Vietnam, ad esempio, fu un completo fallimento tattico, tuttavia si sarebbe anche dimostrata un trionfo tecnologico per il complesso industriale-militare. Anche se la maggioranza degli statunitensi ricorda solo i deprimenti combattimenti sul terreno nei villaggi del Vietnam del Sud, l’aviazione vi combatté la più grande guerra aerea della storia e, anche se pure essa fallì terribilmente e distruttivamente, risultò essere un terreno di prova cruciale per una rivoluzione nell’arsenale robotico.
Per fermare i convogli di camion che i nordvietnamiti mandavano attraverso il Laos meridionale nel Vietnam del Sud, i tecno-maghi del Pentagono combinarono una rete di sensori, computer e aviazione in una campagna di bombardamenti elettronicamente coordinati che, dal 1968 al 1973, sganciarono più di un milione di tonnellate di esplosivi – pari al tonnellaggio totale dell’intera Guerra di Corea – in quell’area limitata. Al costo di 800 milioni di dollari l’anno, l’operazione Igloo White riempì quello stretto corridoio montano di 20.000 sensori acustici, sismici e termici che inviavano segnali a quattro velivoli di comunicazioni EC-121 costantemente in volo sopra l’area.
In una base aerea statunitense appena oltre il fiume Mekong, in Tailandia, la Task Force Alpha impiegò due potenti elaboratori centrali IBM 360/65 dotati dei primi monitor visuali della storia per tradurre tutti quei segnali dei sensori in “una linea chiara di luce” e lanciare così i caccia da combattimento sul Sentiero di Ho Chi Minh dove i computer scaricavano automaticamente bombe a guida laser. Pieno di antenne e dei computer più recenti, il suo massiccio bunker in cemento sembrò, all’epoca, un prodigio futuristico a un dirigente del Pentagono in visita che parlò entusiasticamente di “essere rimasto travolto dalla bellezza e maestà del tempio della Task Force Alpha”.
Tuttavia dopo che più di 100.000 soldati nordvietnamiti con carri armati, camion e artiglieria in qualche modo passarono non rilevati attraverso quella rete di sensori per una massiccia offensiva nel 1972, l’Aviazione dovette ammettere che i suoi 6 miliardi di “campo elettronico di battaglia” erano stati un assoluto fallimento. Tuttavia quella stessa campagna di bombardamenti si sarebbe dimostrata il primo passo grezzo verso un campo di battaglia elettronico futuro per una guerra robotica senza piloti.
Nella pentola a pressione della più vasta guerra aerea della storia, l’Aviazione trasformò anche una vecchia arma, il drone bersaglio “Firebee”, in una nuova tecnologia che avrebbe assunto grande significato tre decenni dopo. Nel 1972 l’Aviazione era in grado di inviare un drone “SC/TV”, equipaggiato con una telecamera sul muso, sino a 2.400 miglia attraverso la Cina o il Vietnam del Nord comunisti controllandolo attraverso immagini televisive a bassa risoluzione. La Forza Aerea fece anche la storia dell’aviazione lanciando sperimentalmente il primo missile da uno di tali droni.
La guerra aerea in Vietnam costituì anche un impulso allo sviluppo del sistema globale di telecomunicazioni satellitari del Pentagono, un’altra importante innovazione. Dopo sette satelliti orbitali del Sistema Iniziale di Comunicazioni Satellitari della Difesa del 1966, terminali a terra in Vietnam cominciarono a trasmettere foto di sorveglianza aerea ad alta definizione a Washington, qualcosa che la NASA definì uno “sviluppo rivoluzionario”. Quelle immagini si dimostrarono così utili che il Pentagono lanciò rapidamente altri 21 satelliti e presto ebbe il primo sistema che poteva comunicare da dovunque sul globo. Oggi, secondo un sito web dell’Aviazione, la terza fase di quel sistema garantisce un comando, controllo e comunicazioni sicuri per “le forze mobili di terra dell’esercito, i terminali aviotrasportati delle forze aeree, le navi della marina in mare, l’Agenzia delle Comunicazioni della Casa Bianca, il Dipartimento di Stato e altri utenti speciali” come la CIA e la NSA.
A caro prezzo la guerra del Vietnam segnò uno spartiacque nell’architettura informatica globale di Washington. Trasformando la sconfitta in innovazione l’Aviazione aveva sviluppato le componenti chiave – comunicazioni satellitari, sensori a distanza, bombardamenti attivati da computer e velivoli senza equipaggio – che si sarebbero fuse quarant’anni dopo in un nuovo sistema di guerra robotica.
La Guerra al Terrore
Di fronte a un’altra serie di sconfitte in Afghanistan e in Iraq, il Pentagono del ventunesimo secolo accelerò nuovamente lo sviluppo di nuove tecnologie militari. Dopo sei anni di campagne contro insurrezionali fallite in entrambi i paesi, il Pentagono scoprì la potenza dell’identificazione biometrica e della sorveglianza elettronica per contribuire a pacificare estese aree urbane. E quando il presidente Obama condusse in seguito la sua “impennata” di truppe in Afghanistan, quel paese divenne una frontiera per sperimentare e perfezionare la guerra dei droni.
Lanciato come un velivolo sperimentale nel 1994, il drone Predator fu impiegato quello stesso anno nei Balcani a fini di ricognizione fotografica. Nel 2000 fu adattato per la sorveglianza in tempo reale nell’ambito dell’Operazione ‘Occhi Afgani’ della CIA. Fu armato con un missile anticarro Hellfire per il primo letale attacco dell’agenzia a Kandahar, Afghanistan, nell’ottobre del 2001. Sette anni dopo l’Aviazione introdusse il drone più grande MQ-9 “Reaper” con una capacità di volo di 1.150 miglia a pieno carico di missili Hellfire e bombe GBU-30, consentendogli di attaccare bersagli quasi dovunque in Europa, Africa o Asia. Per adempiere la sua crescente missione di assassina globale di Washington, l’aviazione ha in programma di avere in servizio 346 Reapers entro il 2021, di cui 80 per la CIA.
Tra il 2004 e il 2010 il tempo totale di volo di tutti i velivoli senza equipaggio è cresciuto bruscamente da sole 71 ore a 250.000 ore. Nel 2011 c’erano già 7.000 droni in una crescente flotta statunitense di velivoli senza pilota. Erano diventati così centrali per la sua potenza militare che il Pentagono stava pianificando di spendere 40 miliardi di dollari per aumentare il loro numero del 35 per cento nel decennio successivo. Al servizio di tutta questa crescita, l’Aviazione stava addestrando 350 piloti di droni, più di tutti i piloti di bombardieri e di caccia messi insieme.
In miniatura o mostruosi, a mano o lanciati da piste, i droni stavano diventando così comuni e così cruciali per così tante missioni militari che emersero dalla guerra al terrore come una delle armi prodigio degli Stati Uniti per preservarne il potere globale. Tuttavia queste impressionanti innovazioni nella guerra dei droni probabilmente alla lunga saranno eclissate da sbalorditivi progressi aerospaziali nella stratosfera e nell’esosfera.
La tripla cupola del Pentagono
Come in Vietnam, nonostante amari rovesci sul terreno in Iraq e in Afghanistan, le recenti guerre di Washington sono state un catalizzatore per la fusione di aerospazio, cyber-spazio e intelligenza artificiale in un nuovo regime militare di guerra robotica.
Per realizzare questa trasformazione tecnologica, a partire dal 2009 il Pentagono pianificò di spendere 55 miliardi di dollari l’anno per sviluppare la robotica per un’interfaccia ad alta intensità di dati di terreno di guerra spaziale, cyber-spaziale e terrestre. Con uno stanziamento annuo per nuove tecnologie che raggiunse i 18 miliardi di dollari nel 2016 il Pentagono aveva, secondo il New York Times, “posto l’intelligenza artificiale al centro della propria strategia di mantenimento della posizione degli Stati Uniti come potenza militare dominante del mondo”, esemplificata da droni futuri che saranno in grado di identificare ed eliminare bersagli nemici senza ricorrere a controllori umani. Entro il 2025 gli Stati Uniti saranno probabilmente in grado di impiegare una guerra aerospaziale e cibernetica avanzata per avviluppare il pianeta in una matrice robotica teoricamente capace di accecare interi eserciti o di polverizzare un singolo insorto.
Nel giro di quindici anni di bilanci militari quasi illimitati per la guerra al terrore, la DARPA ha speso miliardi di dollari cercando di sviluppare nuovi sistemi di armamenti degni di Buck Rogers che solitamente muoiono sul tavolo da disegno o in schianti spettacolari. Attraverso il suo processo per prove ed errori astronomicamente costoso, i pianificatori del Pentagono sembrano essere arrivati alla lenta consapevolezza che i sistemi consolidati, particolarmente droni e satelliti, potrebbero insieme creare un’efficace architettura aerospaziale.
Entro un decennio il Pentagono apparentemente spera di pattugliare incessantemente l’intero pianeta attraverso uno scudo spaziale a tripla cupola che si estenderebbe dal cielo allo spazio e di essere difeso da una flotta di droni con missili letali e sensori occhiuti, controllati attraverso una matrice elettronica e da sistemi robotici. E’ persino possibile fare un giro del regno super-segreto in cui saranno combattute le guerre del futuro, se il Pentagono sogna che diventerà realtà, esplorando i siti sia della DARPA sia di quelli di vari appaltatori della difesa.
Droni nella stratosfera inferiore
Al livello più basso di questo scudo aerospaziale d’emergenza nella stratosfera inferiore (tra i 10.000 e i 20.000 metri d’altezza) il Pentagono collabora con appaltatori della difesa per sviluppare droni d’alta quota che sostituiranno i velivoli con pilota. Per sostituire l’aereo da sorveglianza U-2, ad esempio, il Pentagono ha preparato una flotta prevista di 99 droni Global Hawk al prezzo sbalorditivo di 223 milioni di dollari ciascuno, sette volte il prezzo dell’attuale modello Reaper. La sua estesa apertura alare di 35 metri (maggiore di quella di un Boeing 737) è predisposta per operare a 20.000 metri. Ciascun Global Hawk è equipaggiato con telecamere ad alta risoluzione, sensori elettronici avanzati e motori efficienti per 32 ore di volo continuo, il che significa che può potenzialmente sorvegliare quotidianamente sino a più di 100.000 chilometri quadrati della superficie del pianeta. Con la sua enorme larghezza di banda necessaria per far rimbalzare un torrente di dati audiovisivi tra satelliti e stazioni a terra, tuttavia, il Global Hawk, come altri droni di lunga distanza della flotta statunitense, può dimostrarsi vulnerabile ad attacchi ostili di pirateria informatica in qualche conflitto futuro.
La sofisticazione, e i limiti, di questa tecnologia spaziale in via di sviluppo sono stati rivelati nel dicembre del 2011 quando un drone avanzato RQ-170 Sentinel è improvvisamente finito a terra in Iran, i cui dirigenti hanno poi diffuso fotografie della sua apertura alare a freccia di 18 metri progettata per voli sino a 15.000 metri. Nell’ambito di un contratto “dietro le quinte” di elevata segretezza la Lockheed Martin aveva costruito venti di questi droni spia a un costo di circa 200 milioni di dollari predisposti per essere invisibili ai radar e con ottiche avanzate intese a offrire “appoggio di sorveglianza a forze di combattimento di schieramento avanzato”.
Dunque che cosa faceva questo drone super-segreto nell’ostile Iran? Semplicemente inceppando il suo sistema di navigazione GPS, i cui segnali sono notoriamente suscettibili di essere piratati, ingegneri iraniani avevano assunto il controllo del drone e lo avevano fatto atterrare in una loro base locale alla stessa altitudine del suo campo base nel vicino Afghanistan. Anche se Washington aveva inizialmente negato la cattura, l’evento ha scatenato onde d’urto negli interminabili corridoi del Pentagono.
Dopo tale disastro il Dipartimento della Difesa ha collaborato con uno dei suoi maggiori appaltatori, Northrop Grumman, per accelerare lo sviluppo del suo drone super-invisibile RQ-180 con un’enorme apertura alare di 40 metri, una portata estesa di 1.200 miglia e 24 ore di autonomia di volo. Il suo costo record, 300 milioni di dollari a velivolo, potrebbe essere immaginato come l’inaugurazione di una nuova era di droni da combattimento esageratamente costosi.
Contemporaneamente il drone da sorveglianza e attacco a forma di freccia X-47B si è dimostrato in grado sia di rifornimento in volo sia di trasportare fino a quasi due tonnellate di bombe o missili. Tre anni dopo aver superato il suo test più cruciale di atterraggio guidato da joy-stick sul ponte di una portaerei, la USS George H.W. Bush nel luglio del 2013, la Marina ha annunciato che tale drone sperimentale entrerà in servizio dopo il 2020 come velivolo “MQ-25 Stingray”.
Dominio della stratosfera superiore
Per dominare le altitudini più elevate della stratosfera superiore (da circa 21.000 a circa 50.000 metri) il Pentagono ha spinto i suoi appaltatori ai limiti della tecnologia, spendendo miliardi di dollari per la sperimentazione di fantasiosi velivoli futuristici.
Per più di vent’anni la DARPA ha inseguito il sogno di una flotta di droni a energia solare circondante il globo che potesse volare incessantemente a circa 27.000 metri e che avrebbe operato come equivalente di satelliti a bassa altitudine, cioè piattaforme per intercettazioni di sorveglianza o trasmissioni di segnali. Con un’apertura alare arcuata di 76 metri coperta da pannelli solari ultraleggeri, il drone “Helios” raggiunse un’altitudine record di 30.000 metri nel 2001 prima di finire in pezzi una spettacolare caduta due anni dopo. Ciò nonostante la DARPA lanciò nel 2008 l’ambizioso progetto “Vulture” per costruire velivoli a energia solare con un’enorme apertura alare compresa tra 90 e 150 metri in grado di volare senza sosta a 27.000 metri per cinque anni alla volta. Dopo che la DARPA ebbe abbandonato il progetto perché impraticabile, Google e Facebook sono subentrati nella tecnologia con l’obiettivo di costruire future piattaforme per le connessioni Internet dei loro clienti.
Dal 2003 sia la DARPA sia l’Aviazione hanno lottato per infrangere la barriera delle velocità sub-orbitali sviluppando il Velivolo Ipersonico da Crociera Falcona a forma di freccia. Volando a un’altitudine di 30.000 metri era previsto “trasportare 5,5 tonnellate di carico a una distanza di circa 17.000 chilometri dagli Stati Uniti continentali in meno di due ore”. Anche se i primi lanci sperimentali nel 2010 e 2011 precipitarono a metà del volo, raggiunsero per breve tempo una sorprendente velocità di quasi 21.000 chilometri l’ora, 22 volte la velocità del suono.
Come spesso accade, il fallimento determinò un progresso. Dopo le cadute del Falcon la DARPA ha applicato la sua ipersonica allo sviluppo di un missile capace di penetrare le difese aeree della Cina a un’altitudine di 21.000 metri a una velocità di Mach 5 (circa 6.000 chilometri l’ora).
Contemporaneamente l’unità segreta di sperimentazione “Skunk Works” della Lockheed sta usando la tecnologia ipersonica per sviluppare il velivolo da sorveglianza senza pilota SR-72 come successore del suo SR-71 Blackbird, il velivolo con equipaggio più veloce del mondo. Una volta operativo entro il 2030 il SR-72 dovrebbe volare a circa 7.200 chilometri l’ora, raddoppiando la velocità del suo predecessore con equipaggio, con una fusoliera estremamente invisibile rendendolo non rilevabili quando attraversa qualsiasi continente in un’ora a quasi 25.000 metri risucchiando dati elettronici di spionaggio.
Guerre spaziali nell’esosfera
Nell’esosfera, a 800 chilometri sopra la Terra, l’era della guerra spaziale è sorta nell’aprile del 2010 quando il Dipartimento della Difesa ha lanciato in orbita il suo velivolo spaziale robotico X-37B, lungo solo 9 metri, per una missione di sette mesi. Eliminando i piloti e i loro costosi sistemi di sopravvivenza il riservato Ufficio di Reazione Rapida dell’Aviazione aveva creato un drone spaziale miniaturizzato e militarizzato con propulsori per eludere attacchi missilistici e una stiva per possibili missili aria-aria. Quando il suo secondo prototipo X-37B è atterrato nel giugno del 2012, il suo volo di 15 mesi aveva stabilito la fattibilità di “velivoli spaziali riutilizzabili controllati roboticamente”.
Nell’esosfera, dove un giorno vagabonderanno questi droni spaziali, satelliti orbitali saranno il primo bersaglio di qualsiasi guerra mondiale futura. La vulnerabilità dei sistemi satellitari statunitensi divenne evidente nel 2007, quando la Cina utilizzò un missile terra-aria per abbattere uno dei propri satelliti in orbita 800 chilometri sopra la Terra. Un anno dopo il Pentagono fece lo stesso sparando un missile SM-3 da un incrociatore della marina per colpire direttamente un satellite statunitense a 250 chilometri di altezza.
Dopo il fallimento nello sviluppo di un satellite avanzato F-6, nonostante aver speso più di 200 milioni di dollari in un tentativo di scindere il modulo in componenti più resilienti collegati a microonde, il Pentagono ha scelto invece di aggiornare i suoi più convenzionali satelliti a modulo singolo, come i cinque satelliti interconnessi del Sistemi Utente di Obiettivo Mobile (MUOS). Essi furono lanciati tra il 2013 e il 2015 in orbite geostazionarie per comunicazioni con velivoli, navi e fanteria motorizzata.
Riflettendo il suo ruolo di protagonista nella preparazione delle guerre future e futuristiche, il Comando Congiunto Funzionale per lo Spazio, creato nel 2006, gestisce la Rete Spaziale di Sorveglianza. Per prevenire un attacco da elevata altitudine contro gli Stati Uniti, questo sistema mondiale di radar e telescopi in 29 località remote come l’isola di Ascension e l’atollo di Kwajalein compie giornalmente circa 400.000 osservazioni, controllando ogni oggetto nei cieli.
Il futuro delle armi prodigio
Entro la metà degli anni ’20 del 2000, se si realizzeranno i sogni dell’esercito, lo scudo a tripla cupola del Pentagono dovrebbe essere in grado di polverizzare un singolo “terrorista” con un attacco missilistico o, con uguale facilità, accecare un intero esercito abbattendo tutte le sue comunicazioni di terra, aeree e di navigazione navale. E’ un sistema che, se dovesse funzionare come immaginato, potrebbe consentire agli Stati Uniti un veto diplomatico di letalità globale, un livellatore di qualsiasi futura perdita di influenza internazionale.
Ma come in Vietnam, dove le meraviglie aerospaziali non riuscirono a prevenire una feroce sconfitta, la storia offre alcune aspre lezioni quando si tratta di tecnologia per calpestare insurrezioni, non meno della fusione di forze (diplomatiche, economiche e militari) la cui somma è il potere geopolitico. Dopotutto il Terzo Reich non vinse la seconda guerra mondiale anche se disponeva di “armi prodigio” sorprendentemente avanzate, come il devastante missile V-2, l’inarrestabile caccia da combattimento Me-262 e il missile guidato affonda-navi Hs-293.
La dipendenza di Washington dalla tecnologia militare, e la sua fede in essa, per conservare la propria egemonia garantirà certamente interminabili operazioni di combattimento con risultati incerti nell’eterna guerra ai terroristi lungo il frastagliato margine di Asia e Africa e un’incessante aggressione futura a bassa intensità nello spazio e nel cyber-spazio. Un giorno potrà addirittura portare a un conflitto arma con le rivali Cina e Russia.
Se i sistemi di armi robotiche del Pentagono offriranno agli Stati Uniti una permanenza estesa nell’egemonia globale o si dimostreranno una fantasia ricavata dalle vignette di un libro a fumetti di Buck Rogers, solo il futuro può dirlo. Se, in quel momento a venire, gli Stati Uniti interpreteranno il ruolo dell’indomito Buck Rogers o dei marziani che alla fine egli sconfisse è un’altra domanda che val la pena di porsi. Una cosa è, tuttavia, probabile: quel futuro sta arrivando molto più rapidamente e forse molto più dolorosamente di quanto chiunque di noi sia in grado di immaginare.
Alfred W. McCoy, collaboratore regolare di TomDispatch, è il titolare della cattedra Harrington di storia presso l’Università del Wisconsin-Madison. E’ l’autore del libro oggi classico ‘The Politics of Heroin: CIA Complicity in the Global Drug Trade’ che ha indagato la congiuntura di traffici illeciti di droga e operazioni clandestine nel corso di cinquant’anni, e dell’imminente ‘In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of U.S. Global Power’ (Dispatch Books, settembre) dal quale questo testo è adattato.
Questo articolo è apparso in origine su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione e cofondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro più recente è ‘Shadow Government: Surveillance, Secret Wars, and a Global Security State in a Single-Superpower World’ (Haymarket Books).
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/reality-of-what-happens-after-disasters/
Originale: The Independent
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3. FONTE
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