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Spendiamo molte fantasie per i nuovi mondi distopici e troppo poco per i mondi che desideriamo. Invece, un uomo di cuore e di mente E DI SPIRITO aveva dedicato la sua immaginazione, la sua intelligenza, la sua energia per creare un mondo nuovo migliore per l’umanità, un mondo dove tutto e tutti hanno un loro significato, dove contano la bellezza, la crescita umana, la cura del territorio, conta la cultura, conta il futuro. Adriano Olivetti avrebbe voluto ampliare il suo modello di comunità tra fabbrica, ambiente e uomo. Non gli è stato permesso di farlo. In un modo unico, un sogno che sembrava impossibile divenne realtà e spaventò alcuni. Ciò che stupisce profondamente sono i dettagli di questo mondo di Adriano Olivetti a misura d’uomo che ha fatto fiorire lavoro, arte, cultura, in nome dell’ essere umano e non del dio denaro. La visione del documentario ALLA FINE DI QUESTA PAGINA è decisamente raccomandata.

Disse Adriano Olivetti: “Spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande”. Così scriveva Adriano Olivetti, un imprenditore di futuro, tra quei rari uomini di visione che calano un progetto nel vivo di un Paese e dei suoi bisogni…”

Ancora Adriano Olivetti: “Bisogna prendersi cura del lavoro. È ben altro che la produzione o la produttività. È ben altro che il costo che risulta dai bilanci. È ben altro dal continuo confronto fra meno ore e più salario, o il contrario. Nessuno vuole lavorare poco e nessuno vuole guadagnare poco. Il lavoro comincia dove un operaio tocca una macchina, e la fabbrica, che prima era ferma, si mette in moto. Ma non finisce con la fine della giornata, della settimana, del mese. Il lavoro disegna una identità e una vita, è una linea di connessione che raggiunge e attraversa la casa, la famiglia, il gruppo, si lega alla cittadinanza, diventa la persona e diventa il tempo e il modo in cui vive la società, se vogliamo una società che cammini avanti nel tempo”. FONTE  

E ancora Olivetti (fine seconda guerra mondiale) : “La persona ha profondo il senso e il rispetto della dignità altrui, sente i legami che la uniscono alla comunità cui appartiene, possiede un principio interiore che sostiene la sua vocazione indirizzandola verso un fine spirituale e superiore. Se il mondo vuole evitare nuove catastrofi occorre creare una società in cui la persona possa sviluppare la propria umanità e spiritualità. La società individualista ed egoista dove il progresso economico e sociale era solo la conseguenza di spaventosi conflitti d’interessi e di una continua sopraffazione dei forti sui deboli, è distrutta. Sulle sue rovine nasce una società umana: quella di una Comunità concreta”. VEDI QUI 

Il mondo nuovo secondo Olivetti

Nel 1932 lo scrittore britannico Aldous Huxley pubblicava una delle pietre miliari della letteratura fantascientifica. Anticipando il più celebre e fortunato “1984” di George Orwell, con il romanzo “Il Mondo Nuovo” l’autore dipingeva una delle società distopiche più corrotte mai immaginate. Dieci governatori mondiali, l’ossessione per la produzione in serie, il controllo delle nascite in laboratorio, sesso e droghe come anestetizzanti per i dolori della vita. Di fatto una nuova e terribile società che, sotto il dominio di un regime totalitario, vede nella tecnica e nella tecnologia i migliori strumenti per il controllo, lo sfruttamento e la sottomissione delle persone. Il tutto portando all’estremo il mito di Ford – il padre della catena di montaggio e della razionalizzazione della produzione industriale – che era stato divinizzato a tal punto da soppiantare le ormai vecchie religioni e trasformare in preghiere gli imperativi della produttività e del tanto agognato progresso. Ogni cosa, in quel mondo nuovo di Huxley, era volta a far girare gli ingranaggi della società nella maniera più efficiente possibile, lasciandosi alle spalle, però, la dignità degli esseri umani.

Nel 1938, invece, a non più di 60 km a nord di Torino, si muovevano i primi passi verso la costruzione di un altro mondo nuovo, questa volta vero, tangibile e diametralmente opposto a quello di Huxley, che rappresentava l’alternativa ai dissidi da sempre nati lungo la turbolenta linea sottesa tra il ruolo dell’industria e le responsabilità nei confronti delle persone. Nel Canavese, infatti, un uomo si apprestava a prendere le redini di quella che di lì a poco sarebbe diventata, con le sue macchine da scrivere, una delle fabbriche più importanti al mondo e che si sarebbe incisa nella pietra come l’esempio più illustre della possibile simbiosi tra industria e società. Ciò che si verificò a cavallo della metà del secolo scorso a Ivrea, dunque, fu qualcosa di probabilmente irripetibile e Adriano Olivetti, il suo fautore, fu un caso più unico che raro di talento industriale, sensibile intellettuale e spiccato visionario. Lui, quella dignità delle persone, decise di porla davanti a tutto, rendendo realtà ciò che tantissimi avrebbero solamente definito un’utopia.

Ivrea, prima dell’avvento di Olivetti, non era altro che una cittadina come le altre, ma dal 1908 si può dire che ebbe inizio la sua seconda vita. Quell’anno, lo stesso in cui Ford lanciava la celebre Model T negli Stati Uniti, l’ingegnere Camillo Olivetti inaugurò, nell’edificio Mattoni Rossi, il primo nucleo produttivo della fabbrica e diede inizio alla produzione della M1, la madre delle celebri macchine da scrivere targate Olivetti, che definirono uno dei più luminosi capitoli della storia del design italiano e mondiale. Il boom, però, si raggiunse con l’avvento alla direzione di Adriano Olivetti che, sulle orme del padre, portò all’ennesima potenza il successo dell’attività. Sul lato produttivo, da quel momento l’azienda poté contare sui migliori designer in circolazione, come Marcello Nizzoli ed Ettore Sottsass per il prodotto e Giovanni Pintori per la grafica. Sul lato sociale, però, è dove egli realizzò la vera magia: riuscì a delineare rapidamente un organismo culturalmente sofisticato, per il quale i luoghi di vita dei lavoratori vennero progettati da illustri architetti e le giornate furono permeate dal sapere declinato in tutte le sue forme, come dimostra la presenza di maestri dell’architettura come Le Corbusier o di personalità del calibro di Pier Paolo Pasolini e Vittorio Gassman, che si trovavano a intrattenere i dipendenti durante la pausa pranzo tra un turno e l’altro.

Non c’è da stupirsi, dunque, se l’architettura a Ivrea non venne mai trattata come una componente secondaria e accessoria alla definizione dell’ideale comunitario di Olivetti. A evidenziare efficacemente tale aspetto fu, per la prima volta, la mostra “Olivetti: design in industry”, tenutasi nel 1952 nelle sale del MoMA di New York per mostrare agli USA un eccellente modello industriale da imitare. Ma ciò, in fondo, era già da tempo sotto gli occhi di tutti, sin da quando, direttamente al di là del fiume rispetto al centro storico, per volere di Adriano nacque il primo nucleo di quella città olivettiana che non avrebbe arrestato la sua espansione fino alla fine degli anni ’60. Stabilimenti industriali, residenze per i dipendenti di ogni grado e strutture ospitanti i più disparati servizi per la comunità, sono questi gli elementi che compongono ciò che oggi risulta essere il più importante lascito dell’intuizione imprenditoriale di Olivetti, più del successo planetario della Lettera 22 e più dello sviluppo di uno dei primi calcolatori elettronici della storia. Adriano volle restituire al territorio e ai propri dipendenti quanto da loro veniva offerto quotidianamente a beneficio dell’industria, alimentando un rapporto di grande complicità e rispetto reciproco, capace di abbattere le barriere dei ruoli e di riconoscere dietro la divisa di ogni lavoratore l’esistenza di una persona.

In occasione di un’intervista condotta da Ugo Gregoretti per la Rai, è lo stesso Sottsass a ricordare che «una delle cose particolari della Olivetti è che era un’industria che non necessariamente puntava al business, ma che aveva un profondo senso etico delle proprie responsabilità e della propria attività. Non per niente Olivetti era l’unico industriale, non dico in Italia ma forse in tutto il mondo, che si preoccupava di come era disegnata la fabbrica e di creare gli asili per i bambini degli operai. Quindi, che aveva dell’industria un senso vasto di responsabilità sociale. Il design per Adriano Olivetti non era soltanto una cipria da mettere sopra al prodotto per venderlo di più, era il metaforizzare la responsabilità continua verso l’ambiente, verso la gente e verso il destino dell’oggetto nella società»… LEGGI QUI

DOCUMENTARIO: IN ME NON C’E CHE FUTURO

VEDI ANCHE https://www.academia.edu/2435583/La_cultura_e_i_libri_di_Adriano_Olivetti_Le_relazioni_tra_le_Edizioni_di_Comunit%C3%A0_e_il_loro_fondatore

SU RAIPLAY 

https://www.raiplay.it/video/2016/06/fiction-adriano-olivetti-e1-f228d9af-0963-4578-a2bb-49355b4d9ba4.html

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