Lo ha messo in chiaro la Malesia rispedendo 150 container di rifiuti nei loro paesi d’origine, ed è tutt’altro che sola.
La Malesia ha rimandato nei loro paesi di origine 150 container di rifiuti di plastica che erano arrivati da nazioni ricche come Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Canada per essere riciclati o smaltiti. La ministra dell’Ambiente malesiana Yeo Bee Yin ha scritto su Twitter che prenderà i provvedimenti necessari perché il paese non si trasformi nella «discarica del mondo». Non è la prima volta che succede una cosa simile, e la decisione della Malesia sembra destinata a diventare la norma tra i paesi asiatici nel giro di qualche anno: e sarà un grosso problema.

Si stima che di tutta la plastica prodotta nella storia e che è diventata rifiuto, soltanto il 9 per cento sia stata riciclata: è il motivo per cui le campagne di sensibilizzazione ambientale da anni insistono sul concetto di produrre meno rifiuti, più che sul differenziarli. I sistemi di riciclo nei paesi ricchi non riescono nemmeno lontanamente a stare dietro alla produzione di rifiuti, e perciò da diversi anni si è trovata la soluzione di spedire buona parte dei rifiuti plastici nei paesi asiatici disposti a comprarli. Qui, in parte vengono riciclati, in parte vengono bruciati o ammassati nelle discariche, approfittando delle leggi permissive o della loro mancata applicazione e creando gravi disastri ambientali.

Per anni il più grande importatore di rifiuti plastici è stata la Cina, che però a partire dal gennaio del 2018 ha vietato l’importazione di 24 tipi di rifiuti, scegliendo di comprare soltanto quelli più puri e adatti a essere riciclati. In parte si pensa che la decisione sia stata legata a un documentario, Plastic China, che aveva mostrato le gravissime conseguenze dell’importazione sfrenata di plastica nel paese, e che era poi stato censurato nel paese.

Da quando la Cina ha smesso di importare rifiuti plastici, hanno preso il suo posto altri paesi asiatici: principalmente Thailandia, Cambogia, Indonesia, Vietnam, Taiwan e soprattutto la Malesia, diventata presto il maggiore importatore mondiale. Qui le conseguenze ambientali sono state spesso addirittura peggiori di quelle riscontrate in Cina, per la rapidità con cui è cresciuto il flusso di rifiuti. Un rapporto di Greenpeace aveva scoperto che la plastica ricevuta dalla Malesia nei primi sette mesi del 2018 era stata più del doppio rispetto a quella ricevuta nel 2017, quando ancora la Cina non aveva imposto il divieto. A inizio 2018, la plastica importata in Malesia ammontava a circa 139mila tonnellate al mese, rispetto alle 22mila di un anno prima.

Ma la decisione della Malesia è stata tutt’altro che isolata. L’anno scorso le Filippine avevano rispedito circa 70 container in Canada pieni di plastica erroneamente etichettata come riciclabile. Il problema è spesso questo: se i rifiuti riciclabili possono essere una risorsa economica importante per i paesi in via di sviluppo, molti di quelli che arrivano nei container sono troppo contaminati per essere riciclati, finendo così nelle discariche, o bruciati, oppure nei corsi d’acqua e nel mare.

Tra il 2018 e il 2019, alcuni paesi asiatici hanno imposto divieti e restrizioni più o meno rigide sulle importazioni di rifiuti plastici: nell’estate del 2018 il Vietnam aveva smesso di concedere nuove licenze agli importatori, poco dopo che la Malesia ne aveva revocate 114 ad altrettante aziende di aree particolarmente inquinate. Sempre il Vietnam ha annunciato di voler vietare interamente le importazioni entro il 2025. La Thailandia, dove negli ultimi due anni sono arrivate grandi quantità di rifiuti plastici anche dalla Cina, vuole vietare le importazioni dal 2021. Taiwan invece ha imposto agli importatori di trattare soltanto rifiuti plastici provenienti da una singola fonte, più facile da riciclare. L’India ha dovuto emanare due diversi divieti sulle importazioni, dopo che il primo era stato ampiamente aggirato in quanto poco chiaro sui tipi di plastica vietati.

C’è anche però chi crede che questa ondata di divieti e restrizioni sulle importazioni tra i paesi asiatici nasconda qualche inghippo: Kakuko Nagatani-Yoshida, capo del programma ambientale delle Nazioni Unite sui rifiuti e i prodotti chimici nella regione asiatica e pacifica, ha spiegato al New York Times che rischiano infatti di limitare gli affari di quelle aziende asiatiche che stavano effettivamente riciclando i rifiuti importati. La pensa così anche Douglas Woodring, fondatore della ong Ocean Recovery Alliance, che si occupa di plastica negli oceani, secondo il quale spesso i divieti recenti non hanno fatto le giuste distinzioni tra i rifiuti pericolosi e quelli che possono essere facilmente riciclati.

L’Unione Europea, che produce circa 26 milioni di tonnellate di rifiuti plastici all’anno, ne è il più grande esportatore al mondo, mentre gli Stati Uniti sono primi come singola nazione. Nonostante i tentativi di limitare la plastica monouso, i paesi ricchi hanno ancora grande bisogno di trovare posti in cui spedire i propri rifiuti, che molto spesso continuano a essere importati illegalmente in quei paesi che li hanno vietati. Ci sono infatti un po’ dappertutto stabilimenti senza autorizzazione, che ricevono i rifiuti clandestinamente: la ministra dell’Ambiente malesiana ha parlato per esempio di una società di riciclaggio britannica che ha esportato illegalmente circa 50mila tonnellate di plastica in Malesia negli ultimi due anni, aggiungendo di voler chiedere ai governi stranieri di indagare sulle aziende che praticano attività simili.

L’anno scorso, però, 187 paesi hanno firmato a Basilea una convezione che tra le altre cose proibisce di esportare rifiuti plastici nei paesi che non danno il loro esplicito assenso, a partire dal gennaio del 2021. Soltanto i rifiuti composti da certi tipi di polimeri, e precedentemente ripuliti e smistati, potranno circolare liberamente: gli altri avranno bisogno del permesso apposito del paese dove sono spediti. FONTE 

CINA DICHIARA GUERRA ALLA PLASTICA E VIETERÀ LA VENDITA DI ALCUNI PRODOTTI ENTRO IL 2020

La Cina di plastica

Per anni, l’America, (come quasi tutti i paesi industrializzati), ha venduto milioni di tonnellate di plastica alla Cina, per essere riciclati in nuovi prodotti. Circa il 70% dei rifiuti del mondo è andato in Cina, che equivalgono a 7 milioni di tonnellate all’anno. Dove si metteranno tutti i rifiuti ora che la Cina non li vuole più?

“Plastic China”, un documentario presentato a CinemAmbiente racconta il rovescio della medaglia del riciclo, una Cina invasa dai rifiuti.

Un inferno di cui l’intera comunità internazionale è responsabile.

La Repubblica Popolare si scopre oggi letteralmente sommersa dai rifiuti di Stati Uniti, Europa, Corea e Giappone. Come se non fossero già abbastanza quelli di 1 miliardo e 400 milioni di cinesi…   A denunciare la situazione è arrivato a CinemAmbiente il bel film di Jiuliang Wang, regista, fotografo e giornalista cinese che da anni si occupa di inchieste ambientali nel suo paese. Girato interamente in una piccola città nella provincia nordorientale dello Shandong, Plastic China entra nella quotidianità asfissiante di un laboratorio a conduzione familiare per il riciclo della plastica. Tre anni di ricerche, riprese e vita vissuta insieme alle due famiglie dei protagonisti – quella di Kun, il giovane proprietario che sogna di mandare il figlio all’università, e quella della piccola Yi-Jie, arrivata dal Sichuan per guadagnare qualche soldo nella fabbrica e sopravvivere alla povertà – restituiscono uno spaccato di incredibile naturalezza e una ricca stratificazione di significati e informazioni sulla Cina contemporanea. C’è il rovescio della medaglia dorata del boom economico; il dramma di un’antica società rurale, che ha perso la sua identità e si ricicla (appunto…) per star dietro all’imperativo della crescita; e c’è l’infanzia soffocata di Yi-Jie, insieme al potere salvifico del’immaginazione che trasforma persino una lurida discarica in un territorio di scoperte. Il tutto in un ambiente surreale, non solo insudiciato, ma deformato sin nella sostanza dall’invasione della plastica: una campagna dove le pecore brucano il pluriball, dove si “pescano” pesci morti in un torrente di liquami, dove la collina dei giochi è un monte di immondizie e la brace per cucinare si alimenta con pezzi di imballaggi e sacchetti. Un inferno in pvc di cui non solo la Cina, ma l’intera comunità internazionale è responsabile.

Il regista Jiuliang Wang ne ha parlato con La Stampa. VEDI QUI https://www.lastampa.it/tuttogreen/2017/06/05/news/il-lato-oscuro-del-riciclo-a-cinemambiente-la-cina-di-plastica-di-jiuliang-wang-1.34578165

FILM COMPLETO

ESTRATTO (26 min) 

TRAILER

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