Nel 1956 gli USA avevano un piano per regolare i conti con l’URSS mediante un attacco nucleare devastante, oggi quel piano è stato desecretato. Nel linguaggio della politica questo può essere letto come una intimidazione?

 

Un documento del 1956 fa luce sul piano nucleare Usa per porre fine alla Guerra Fredda

Di Giacomo Gabellini

Nel dicembre dello scorso anno, la National Archives and Records Administration (Nara, l’archivio contenente i documenti del governo e delle varie agenzie ad esso connesse) degli Stati Uniti, il cui capo-archivista viene nominato direttamente dal Presidente, ha desecretato un dossier di oltre 800 pagine redatto in piena Guerra Fredda e contenente la lista dettagliata degli obiettivi in territorio dell’Unione Sovietica, della Repubblica Popolare Cinese e dell’Europa orientale da colpire con armi nucleari. Quando, nel 1956, fu preparata la target list, gli Usa disponevano di più di 12.000 testate nucleari per una potenza complessiva di 20.000 megatoni, corrispondente a 1,5 milioni di Little Boy, la tipologia di bomba atomica sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945. All’epoca, l’Unione Sovietica, il cui primo test nucleare era stato realizzato con successo nell’agosto 1949, aveva costruito circa 1.000 ordigni mentre la Cina avrebbe dovuto aspettare ben 18 anni (ottobre 1964) per ottenere l’accesso alla tecnologia necessaria a fabbricare bombe atomiche. La conservazione della situazione di netto vantaggio in cui si trovavano gli Usa, dotati anche di un vasto assortimento di vettori (bombardieri e missili), era indubbiamente il fine ultimo a cui tendevano gli autori del report, convinti che distruggendo preventivamente con attacchi nucleari multipli e simultanei qualcosa come 1.100 campi d’aviazione e 1.200 grandi città, gli Stati Uniti avrebbero chiuso rapidamente a la partita con il comunismo iniziata proprio con i bombardamenti nucleari sul Giappone dell’agosto 1945. Il piano rimasto top secret fino a dicembre prevedeva di sganciare 180 bombe atomiche su Mosca, 145 su Leningrado e 23 su Pechino, con l’obiettivo di radere al suolo i maggiori agglomerati urbani e le principali aree popolate con esplosioni nucleari al livello del suolo per massimizzare le ricadute radioattive. Un approccio più moderato venne riservato a Berlino Est, il cui bombardamento avrebbe inesorabilmente determinato «implicazioni disastrose anche per Berlino Ovest», controllata dagli occidentali.

Non è chiaro se le ragioni che impedirono l’implementazione del piano fossero dettate dal timore dell’inevitabile rappresaglia sovietica, che avrebbe comportato la distruzione di megalopoli come New York, Washington e Los Angeles, o da scrupoli di natura politico-morale del governo di Washington allora guidato dall’ex generale Dwight Eisenhower. È molto probabile che questo elenco sia stato rivisto ed attualizzato nel corso dei decenni, includendo di volta in volta obiettivi dei Paesi messi nel mirino dagli Usa, quali l’Iran e la Corea del Nord. È ormai risaputo che dalla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno sviluppato armi nucleari tattiche con l’intenzione di usarle in conflitti convenzionali con Paesi sprovvisti di tecnologia atomica. Nel 2001, sull’onda degli attacchi terroristici dell’11 settembre, l’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld auspicò l’utilizzo di bombe atomiche a ridotta radioattività  in Afghanistan per colpire i talebani rintanati nelle grotte ricavate sulle montagne di Tora Bora. Secondo il parere di alcuni esperti, la possibilità di impiegare queste tipologie di armi fu valutata anche alla vigilia della guerra all’Iraq sferrata nell’ottobre del 2003, nel corso di un incontro segreto presso l’Air Force Base di Offutt, in Nebraska. Durante la riunione, cui – a differenza di qualsiasi membro del Congresso – presero parte i capi del Comando Strategico Usa, i principali appaltatori della Difesa e i più influenti analisti politici statunitensi, si parlò della necessità di sviluppare una nuova generazione di armi nucleari anche all’idrogeno di dimensioni ridotte e maggiore flessibilità da impiegare nei teatri di guerra del XXI Secolo come quello libico nel 2011.

Fonti ben informate hanno rivelato che già nel 1996, per la verità, il funzionario del Pentagono Harold Smith aveva esercitato pressioni sui tecnici impegnati nella realizzazione della bomba all’idrogeno B61-11 affinché accelerassero i tempi in quanto le caratteristiche di questa bomba, come la precisione e il basso livello di radioattività, si adattavano alla perfezione a colpire un bunker sotterraneo situato nella città libica di Tarhuna, dove si sospettava che Gheddafi stesse producendo armi chimiche.

Alla luce di tutto ciò, la tempistica che ha seguito la pubblicazione di un documento tanto problematico e controverso si presta quindi a interpretazioni ben precise, essendo l’attuale congiuntura storica e strategica contrassegnata dall’incrinatura dei rapporti tra Stati Uniti e Federazione e dalla tensione montante in ambito economico-finanziario e geopolitico tra Usa e Repubblica Popolare Cinese. La desecretazione del report può essere letta come un chiaro monito a Russia e Repubblica Popolare Cinese, che rientra, al pari dello scatenamento della crisi ucraina volta a strappare alla sfera egemonica russa un tassello fondamentale del suo “estero vicino”, dell’approfondirsi del conflitto siriano che rischia di ridurre drasticamente l’influenza di Mosca sul Medio Oriente ed istigare pericolosamente alla rivolta le cospicue comunità islamiche del Caucaso, dell’Asia centrale e dello Xinjiang (gli uiguri), dell’accerchiamento militare della Cina mediante il dislocamento di navi che fungono da basi galleggianti per le forze speciali dal Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale e l’installazione di strutture militari presso Singapore, Thailandia e Filippine al fine di porre sotto controllo le vie attraverso cui la Cina si rifornisce di energia, nel grande disegno attraverso cui Washington mira a mantenere intatta la propria supremazia politica, economica e strategica.

Una funzione cruciale nell’ambito di questo piano è assicurata dall’attivismo statunitense in ambito nucleare, con il progetto dal costo stimato in qualcosa come un trilione di dollari che prevede il rafforzamento dell’arsenale con ulteriori 12 sottomarini da attacco armabili con 200 testate nucleari ciascuno e 100 nuovi bombardieri strategici, ognuno dei quali è in grado di trasportare più di 20 testate nucleari, con lo schieramento in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia delle bombe miniaturizzate all’idrogeno B61-12 e con l’innalzamento dello “scudo anti-missilistico” in Europa orientale. In tale quadro, lo scorso 12 dicembre Washington ha annunciato l’attivazione della prima batteria missilistica con base a terra della Nato presso la base romena di Deveselu in Romania e chiarito che a breve ne verrà messa in funzione una analoga in Polonia, dotata di 24 sistemi missilistici Aegis che di fatto sono già installati a bordo di 4 navi da guerra Usa dislocate nel Mediterraneo e Mar Nero. Secondo un’analisi dell’«Associated Press» basata su informazioni provenienti da fonti anonime del Dipartimento della Difesa, «il Pentagono ha sempre tenuto l’uso di missili nucleari contro obiettivi militari nel territorio della Russia nel novero delle opzioni praticabili». Robert Scher, assistente del segretario alla Difesa Ashton Carter, ha riferito che le misure approvate dal Congresso nell’aprile 2015 contemplano l’attacco preventivo con testate nucleari di strutture missilistiche in territorio russo.

Si tratta di una provocazione pesantissima, a cui Mosca ha reagito dapprima evidenziando che la capacità delle batterie missilistiche impiantate in Romania e Polonia di lanciare missili Tomahawk viola il Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie sottoscritto dagli Usa nel dicembre del 1987, che vieta lo schieramento in Europa di missili nucleari a medio raggio con base a terra. Successivamente, il Cremlino ha annunciato adeguate contromisure, lanciando un proprio programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare e avvertendo Stati Uniti e Paesi europei che i micidiali missili Kalibr usati in Siria contro lo “Stato Islamico” possono trasportare anche testate nucleari. L’avvertimento è chiarissimo, e suggerisce che nella lista degli obiettivi redatta dal Cremlino figurino, oltre alle maggiori metropoli statunitensi, anche le basi militari Usa/Nato disseminate in tutta Europa.

.FONTE https://www.enzopennetta.it/2017/09/1956/

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