La nostra entusiastica sottomissione alle tecnologie digitali! Dietro l’illusione di una maggiore comunicazione, c’è la realtà e l’isolamento. 

Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri

di Matteo Bittanti

Ogni anno, migliaia di libri invadono le librerie. Almeno un centinaio sono importanti. Solo una manciata – meno di una decina – riescono a cogliere perfettamente la zeitgeist, ad illuminare il presente e offrire nuove modalità di comprensione del contemporaneo. Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri di Sherry Turkle appartiene a questa elitaria categoria. Finalmente disponibile in lingua italiana a due anni di distanza dalla pubblicazione negli Stati Uniti grazie ai tipi di Codice, Insieme ma soli completa una fondamentale trilogia che esplora l’impatto sociale e psicologico delle nuove tecnologie – computer, videogiochi, robot – nei paesi tecnologicamente avanzati – Stati Uniti e Giappone in primis, ma le sue osservazioni riguardano anche l’Inghilterra e l’Europa di Serie A.

Ho discusso in precedenza alcuni temi del saggio di Turkle, ma la ricchezza concettuale di questo splendido lavoro richiede ulteriori commenti. Nella seconda parte del suo mirabile libro – “Sempre accesi” – Turkle ci ricorda che nell’era dell’iPhone e del wi-fi “siamo diventati tutti cyborg” e aggiunge: “Gli esseri umani adorano le loro tecnologie di connessione”, una frase che evoca la celebre affermazione di Bruce Sterling secondo la quale “I poveri amano i loro telefoni cellulari”, per cui la connessione non ci arricchisce, ma ci impoverisce, ci rende meno umani perché ci subordina alla rete. Una rete di aspettative, di performance coatte, di falsi bisogni, di urgenze fittizie. Con l’iPhone, siamo tutti poveri. Poveri dentro. Schiavi delle nostre stesse manie e insicurezze. Turkle descrive in dettaglio le nuove patologie dell’era digitale – la compulsione di leggere l’email alla mattina, appena svegli e prima di andare a letto. “Ho capito da tempo che prendere atto dei miei problemi professionali e delle aspettative degli altri all’inizio o alla fine della mia giornata non è il modo migliore di vivere, ma questa cattiva abitudine continua,” scrive.

Turkle non lo dice esplicitamente, ma de facto, trattiamo i nostri telefoni cellulari – iPhone in primis – come i diabolici Tamagotchi descritti nella prima parte del suo saggio. Li adoriamo come i Furbies che ci dicono “ti amo”. Nel momento in cui chiediamo a Siri il senso della vita, è chiaro a tutti che siamo ormai prigionieri di quelle tecnologie che dovevano liberarci, arricchirci, potenziarci. Vittime delle nostre stesse illusioni rispondiamo alle vibrazioni del piccolo mostro come i cani di Pavlov:

“La robotica e la connettività sono complementari: ci conducono inesorabilmente al ritiro relazionale. Con i robot sociali siamo soli, ma ci illudiamo di essere “insieme”. Grazie alle connessioni rese possibili dalla tecnologia, siamo “insieme”, ma questa forma di esistenza è così vuota, così limitata che siamo de facto soli. Le nostre tecnologie ci spingono a trattare il nostro prossimo come un mero oggetto, un oggetto a cui ‘accedere’ ma solo a quelle parti che troviamo utili, confortevoli o divertenti”.

La tecnologia, scrive Turkle, reifica l’Altro, riducendolo a mero strumento. Si tratta, beninteso, di critiche tutt’altro che nuove – Martin Heidegger aveva raggiunto le medesime conclusioni ben prima dell’iPhone e di Facebook. La vera sorpresa,, semmai, sta nell’acritica accettazione del modo di essere digitale come standard esistenziale, come protocollo operativo. Le critiche alla techné, quelle davvero efficaci, sono sporadiche nell’era del marketing spacciato per giornalismo. Insieme, ma soli è una di queste eccezioni.

Turkle lamenta come le nuove tecnologie della comunicazione non hanno annullato semplicemente le distanze. Hanno impoverito la nozione stessa di spazio. “Oggi ci ritroviamo in spazi pubblici senza nemmeno interagire. Ognuno è incollato al proprio dispositivo mobile, un dispositivo che funziona come portale di accesso ad altre persone, ad altri luoghi”. Il contingente perde di significato. Le tecnologie de fatto distruggono la consapevolezza del qui e dell’ora, obliterano quel momento presente sul quale si fondano le più importanti filosofie orientali ed occidentali. L’iPhone, per sua natura, svaluta l’immanente. Telefoni cellulari e smartphone hanno inoltre elevato la maleducazione a modus operandi.

“La tecnologia ci mette in ‘pausa’. Le nostre conversazioni faccia-a-faccia sono continuamente interrotte da chiamate e messaggi sms. Nel mondo della corrispondenza cartacea, era assolutamente inaccettabile che un collega si mettesse a leggere una lettera personale durante una riunione. Nel nuovo mondo digitale, ignorare chi ci sta di fronte per rispondere a una chiamata al cellulare o rispondere a un sms è diventata la norma.”

Turkle osserva anche gli effetti nefasti del multitasking sugli studenti. Chi studia – o crede di studiare – mentre aggiorna Facebook, fa acquisti su Amazon, risponde alle chiamate e ai messaggi testuali e alle chat è sistematicamente incapace di sviluppare un pensiero coerente. La difficoltà di concentrazione delle nuove generazioni è al centro di numerosi studi. In tutti i casi, le ricerche hanno concluso che chi pratica il multitasking si auto-danneggia, sfrutta male le proprie risorse cognitive, con buona pace dei “media guru” che descrivono i “nativi digitali” come se si trattasse di una nuova specie di esseri umani dotati di super-poteri. Viva il multitasking!

“Le prestazioni dei multitaskers non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dei mono-tasker. Ma il multitasking ci fa sentire bene perché, a livello neuronale, il senso di gratificazione istantanea prodotto dal cervello ci fa sentire ‘padroni del mondo’. Drogati di tecnologia, ci illudiamo di aver raggiunto incredibili livelli di produttività e, per converso, ci spinge a proseguire nel nostro delirio di (immaginaria) onnipotenza.”

Per la cronaca, laptop e smartphone sono banditi in tutti i miei corsi. Chi viene beccato con uno smartphone viene immediatamente invitato a lasciare l’aula. Non tutti i miei colleghi approvano questi metodi. Proibire l’uso di computer nella Silicon Valley viene considerato blasfemo, ma posso confermare che dopo un iniziale smarrimento gli studenti apprezzano il formato. Una lezione di tre ore è una sessione di yoga per il cervello. I laptop sono ammessi solo per le presentazioni. Beninteso, mi servo di blog e wiki per ogni corso che insegno da almeno una decade. In classe, tuttavia, la tecnologia è rigorosamente off-limits. A questo proposito, Turkle osserva: “In base alla mia esperienza, gli studenti che hanno i laptop aperti in classe imparano di meno rispetto ai loro colleghi che usano carta e penna per prendere appunti”. Appunto.

La posta in gioco non è “solo” l’apprendimento. Turkle sottolinea che l’uso smodato della tecnologia produce conseguenze deleterie sulla nozione stessa di identità:

“Oggi viviamo in un mondo in cui il sé si costruisce sulla base delle risposte fornite, delle chiamate effettuate, degli e-mail spediti, dei contatti raggiunti. Un sé calibrato sulla base di quello che la tecnologia propone e impone, su quello che semplifica e al tempo stesso svaluta. In un mondo in cui la tecnologia ci spinge a produrre di più e più in fretta, ci troviamo ad affrontare un curioso paradosso. Da un lato ripetiamo ad nauseam che viviamo in un mondo sempre più complesso, dall’altro abbiamo creato una cultura della comunicazione che rende difficile, se non impossibile, ritagliarsi spazi e tempi per riflettere in modo tranquillo, senza distrazioni. In un mondo che esige risposte in tempo reale abbiamo perso la capacità di affrontare problemi complicati.”

Ancora più interessanti delle conclusioni di Turkle sono i brandelli di interviste riportate nel saggio. Individui che considerano un’interruzione come l’unico modo possibile di stabilire una connessione. Quelli terrorizzati dal conversare a voce al telefono. Quelli che dormono con i loro iPhone sotto il cuscino. Quelli che non esistono se non twittano ogni tre secondi. Quelli che rispondono ai messaggi testuali mentre sono alla guida. Turkle descrive in modo acuto e penetrante i nuovi gradi di separazione creati dalle tecnologie, il ritorno prepotente del narcisismo (tipica di “quelle personalità così fragili da necessitare di frequenti conferme e costante supporto”).

Nell’epilogo, Turkle riflette sulle differenze sostanziali che sussistono tra le lettere scritte a mano da sua madre e i messaggi sms della figlia. Il finale è dedicato alle conversazioni – vacue, eteree, distratte – via Skype.

“Su Skype ci vediamo, ma non stabiliamo un vero contatto visivo. Non amo le immagini di queste conversazioni. Sul volto di mia figlia leggo una profonda solitudine. Ovviamente, la mia esperienza con Skype è ironica considerando che sto sperimentando sulla mia pelle i limiti della conversazione digitale, il mio oggetto di studio. Nei miei momenti di auto-indulgenza, immagino che quando mia figlia avrà quarant’anni, non avrà modo di recuperare queste conversazioni [mentre io ho potuto leggere le lettere scritte da mia madre]. Perché il digitale è effimero se non ti dai da fare per renderlo permanente”.

Se leggete un solo libro di saggistica all’anno, ritagliatevi qualche ora per Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri.

Un consiglio personale: spegnete il telefonino durante la lettura.  

FONTE http://blog.wired.it/misterbit/2012/02/27/insieme-ma-soli-sherry-turkle-e-i-paradossi-della-tecnologia-parte-seconda.html

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